Recensione su Il cigno nero

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E il Cigno Nero danzò nella luce / 31 Maggio 2013 in Il cigno nero

Il buio, la carne, il sangue, la luce. Il sogno della perfezione che, tra vorticanti pirouettes e ronds de jamb psicologici, ci trascina in un incubo ossessivo e visionario, diretto da un ispiratissimo e impeccabile Darren Aronofsky. Il Cigno Nero è tutto questo e molto di più. Uno di quei film che sprigionano la forza del Cinema e la sua essenza più pura, un dramma che fa della potenza dell’immagine il suo punto di forza.

La strepitosa Natalie Portman è Nina Seyers, disciplinata ballerina classica che viene scelta da Thomas Leroy (Vincent Cassel) per interpretare, nel balletto Il lago dei cigni, sia il dolce Cigno Bianco che il seducente Cigno Nero. E la ricerca sfrenata della perfezione ci getterà negli abissi psicologici di Nina, costretta a specchiarsi nella sensuale, a tratti voluttuosa, Lily (Mila Kunis) e a combattere ossessioni e frustrazioni di una madre iperprotettiva (Barbara Hershey) che, nei tesissimi tratti del volto, somiglia pericolosamente alla signora Voorhees di Venerdì 13.

L’inizio è un prologo onirico, con Nina, bianchissima, quasi lucente, che balla circondata dalle tenebre (per levità e tematiche non possiamo non pensare ai titoli di Raging Bull) e poi precipita in atmosfere degne dei dipinti di Fussli. È solo il primo di una serie di flash oscuri e psicotici che diventeranno sempre più frequenti ed estremi, guidati dal tema cromatico dominante del bianco e del nero. L’arredamento dell’abitazione di Thomas è emblematico di questo bi-cromatismo psicologico: da una parete occhieggiano, quasi totemiche, le macchie di Rorschach.

Col passare del tempo, bianco e nero diventano sempre più onnipresenti, in un continuo rincorrersi, completarsi e annullarsi a vicenda, incapaci, come lo è Nina, di rinunciare all’assolutezza e ridursi a sfumature di grigio. L’unico colore che può scaturire da questo scontro è il rosso del sangue, persino nel metamorfico balletto finale. Uno spettacolo visivo di rara bellezza, potente, lirico, maestoso, apoteosi di un dramma intenso e viscerale.

Aronofsky segue la solida strada segnata da The Wrestler, riproponendoci il tema del corpo perfetto eppure martoriato nella sua umanità, dell’artista che solo nell’ovazione fragorosa del pubblico e in un’esibizione perfetta trova il suo unico scopo di vita, personaggi che si tuffano a capofitto nella performance della vita, senza curarsi delle conseguenze perché l’ideale è uno, solo e sublime: l’Arte, la perfezione.

Aronofsky ci è riuscito.

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