Father and Son / 2 Maggio 2020 in Beautiful Boy

Al mio secondo film diretto da Felix Van Groeningen dopo Alabama Monroe (2012), grazie a Beautiful Boy, primo lungometraggio anglofono e d’oltreoceano del regista belga, noto alcuni elementi indubbiamente ricorrenti nella sua filmografia:
– famiglie belle (cioè, nuclei famigliari -inizialmente- sereni composti da persone belle dentro e fuori);
– un sacco di musica (in questa colonna sonora, c’è di tutto, senza particolare senso di continuità, dai Nirvana ai Sigur Rós, passando per David Bowie, John Lennon e Massive Attack);
– ricerca quasi ossessiva di drammi che contemplano il rapporto genitori-figli e che possano “insegnare” qualcosa a qualcuno.

Nello specifico, Beautiful Boy affronta il problema della tossicodipendenza giovanile. Anzi, di più: attraverso una storia vera (i veri Nic e David Sheff sono stati i principali consulenti del film che racconta la loro storia) si propone di mostrare come, senza motivi apparenti, un ragazzo sano, brillante, bello, con mille porte spalancate su altrettanti futuri, decida in maniera consapevole di diventare un tossicodipendente alcolizzato (in realtà, nel film, non si vede mai Nic bere al punto da dimostrare una dipendenza dall’alcool, ma lui dice che ce l’ha e gli crediamo).
Come contraltare, van Groeningen dipinge il ritatto di un padre che, inizialmente sopraffatto dall’incredulità, trovandosi di fronte un individuo completamente diverso da quello che conosceva e consapevole di poter essere causa del proprio presunto fallimento come genitore, prova a reagire -infine- concependo con sconcertante realismo che qualunque cosa lui possa provare a fare per aiutarlo è inutile.

I temi sono penosissimi, dolorosi.
Ma Van Groeningen indora (e di molto) la pillola mostrando assai poco dell’abbrutimento a cui potrebbe essere stato soggetto realmente Nic/Timothée Chalamet, uno dei tossici più belli e in forma che abbia mai visto sullo schermo, evitando di mostrare grosse scenate o cedimenti da parte di David/Steve Carell. Nic/Chalamet incarna bene l’assioma del Beautiful Boy cercato dal film, ma, nel complesso, la bellezza reiterata di tutto quello che viene mostrato (dalla casa degli Sheff immersa nel verde ai fratellini biondi e dolci) mi ha annoiato.
Nel suo profondo dramma, la storia raccontata è -non fustigatemi- convenzionale e, pur contenendo un messaggio sociale (la scarsa attenzione riservata alla prevenzione della diffusione delle dipendenze da droghe e all’assistenza dei tossicodipendenti, benché l’assunzione di droghe sia uno dei maggiori motivi di morte negli USA), non mi ha commossa (e l’obiettivo di van Groeningen, ahimé, sembra sempre sempre sempre quello: far piangere a dirotto).

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