Ho provato a dare una spiegazione a questa serie tv / 24 Gennaio 2024 in The Curse

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

La miniserie Showtime The Curse è una delle cose più “strane” viste in tv e al cinema in vita mia.
E di cose strambe ne ho incocciate, finora.

In realtà, la trama non è particolarmente originale: The Curse parla di una coppia giovane che intende avere un certo successo personale, occupandosi di attività benefiche e filantropiche, come echeggia nel primo nome del programma tv di cui sono protagonisti (Flipanthropy).

Quindi, cambiano e sono aggiornati ai nostri tempi gli strumenti con cui si tenta di ottenere la fama, ma di storie di persone ipocrite e ambiziose ne sono pieni la letteratura, il cinema e la televisione.
Quel che mi è sembrato “diverso”, qui, rispetto ad altre situazioni narrative simili, è il fatto che i protagonisti non sono né “buoni”, né “cattivi”. Sono solo persone ipocrite e mediocri, prive di qualsiasi forma di talento o conoscenza, rappresentate in modo oggettivo e implacabile. Non sono eroi, ma neppure antieroi. Cioè, per estremi, non sono Steve Austin o Tony Soprano.
Semplicemente (si fa per dire…), Whitney (Emma Stone) e Asher (Nathan Fielder) sono individui intimamente e naturalmente sgradevoli.

La loro sgradevolezza è dovuta agli obiettivi personali e professionali che si prefiggono, ai mezzi che usano per raggiungerli, al modo in cui concepiscono i rapporti interpersonali.
Ma tutti, e dico tutti, i personaggi della serie sono altrettanto sgradevoli. L’artista nativa, il regista di Flipanthropy (Benny Safdie, che è anche co-regista e co-sceneggiatore di The Curse, con Fielder, e co-produttore, anche con la Stone), la bambina che lancia la mini maledizione, suo padre e sua sorella, i genitori di Whitney, le persone che la coppia ritiene siano bisognose del loro aiuto materiale ed economico, la commessa del negozio di jeans, i pompieri… Insomma, chiunque -ma davvero chiunque- compaia in questo prodotto televisivo è odioso, perché è egoista, calcolatore, menefreghista, apatico, profittatore, avido, aggiungete il difetto che volete, a scelta, tra quelli che rendono (o dovrebbero rendere) le persone inadatte a vivere in un consesso civile.

Ma quel che, probabilmente, li rende così insopportabili è che -povera me- è facile specchiarsi in loro (in ciascuno di loro!) e -ohohoh!- il tema dello specchio è preponderante, nella serie, quasi in maniera didascalica.
Le case passive di nuova costruzione che costituiscono il perno dell’attività imprenditoriale della coppia protagonista sono rivestite con materiale riflettente e, nel corso delle 10 puntate di The Curse, ci sono tantissime occasioni in cui i personaggi in scena si specchiano su superfici riflettenti, offrendo di sé perlopiù immagini sfocate, distorte o, comunque, non corrispondenti alla loro forma “reale” (in modo analogo, funzionano gli schermi degli smartphone o le macchine da presa con cui si riprendono o con cui vengono ripresi da terzi).
È come se gli specchi e gli schermi di The Curse rivelassero la mostruosità che le persone, in genere, tentano di alterare con comportamenti mendaci e tendenzialmente ipocriti.
Whitney, in questo senso, è cintura nera di sorrisi falsi e la Stone è grandiosa nell’esagerare la mimica facciale del suo personaggio, ci sono dei momenti in cui i suoi occhi sgranati e la grande bocca sono davvero perturbanti (a tratti, sembra che il suo volto stia per deformarsi come nel video di Black Hole Sun dei Soundgarden).

Credo che, in sostanza, The Curse parli di culto di sé e della costruzione di una immagine pubblica socialmente apprezzata.
Come dicevo, niente di innovativo. Eppure…

L’episodio finale, Green Queen, è niente più che folle e surreale.
Non sono riuscita a trovare un bandolo vagamente logico nella strambissima matassa metaforica della messinscena.
E me ne sto, perché, secondo me, tutto quel che The Curse aveva da dire l’ha detto nei 9 episodi precedenti, in cui non sembra accadere molto, ma che, invece, costituiscono un prontuario di bassezze umane.
L’ultima puntata è il vertice onirico e simbolico di una storia come tante.

Non conoscevo Nathan Fielder (anche se, in realtà, ha partecipato come attore ad alcuni film che ho visto, come The Disaster Artist), ma ho scoperto che, negli Stati Uniti, è una specie di supereroe comico-cinico: su Rotten Tomatoes, i suoi lavori (per esempio, il mockumentary seriale Nathan For You) hanno medie altissime. Qualcosa vorrà pur dire. A me lui ha fatto perlopiù -ehm- ribrezzo.
Nel complesso, The Curse è una serie molto “americana”, con elementi molto geolocalizzati (e, forse, per questo, non l’ho apprezzata al 100%). Però, allo stesso tempo, riesce a essere anche universale. Perché, dopotutto, la mediocrità non ha latitudine.

Safdie sguazza in questa situazione (che, per alcuni versi, mi ha ricordato i lavori di Ari Aster, perlomeno per il grado di fastidio capace di raggiungere) come un pesce nell’acqua.

Mi sa che la Stone si diverte un bé a partecipare a progetti strambi. Mentre guardavo The Curse, mi è venuto in mente che, qualche anno fa, aveva partecipato alla curiosa miniserie Netflix Maniac di Cary J. Fukunaga.
Ora, aspetto di vederla in Povere creature! di Lanthimos, per apprezzare quanto si sia divertita anche qui.

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