[Anonimo]

Tempo fa lessi qualcosa della Mulvey a proposito del cinema classico hollywoodiano. Sostanzialmente sosteneva che il processo di identificazione personaggio/spettatore si rivolgeva solamente allo spettatore maschile attraverso un personaggio maschile, almeno nel cinema classico hollywoodiano. Un esempio perfetto (mio, non sono sicuro che l’abbia portato anche la Mulvey, ma il concetto è quello) può essere quando la Hepburn canta “Moon river” in “Colazione da Tiffany”, e lo spettatore, attraverso gli zoom della telecamera, che gioca tra primo piano, primissimo piano &cc., s’identifica in Peppard, che si accorge d’essersi innamorato (o si innamora) in quel preciso momento della Hepburn. Insomma, la morale della favola è la passività della donna nel cinema, o almeno della sua conformazione a oggetto verso cui l’eroe tende. (E un altro esempio, calzatissimo, potrebbe essere la Grahame ne “Il grande caldo” di Lang.) A ogni modo, mi sono più volte imbattuto più volte, negli ultimi anni, in critiche femministe, sia letterarie (a Franzen in primo luogo, ma anche la polemica, mai digerita, che qualche femminista statunitense di cattedra mosse contro David Foster Wallace, accusato di essere eccessivamente complicato e i cui libri toglievano spazio a una narrativa di stampo femminista) che cinematografiche (come dimenticare la mai sopita rivolta contro l'”Antichrist” di Lars von Trier, accusato di misoginia?). Dunque mi pareva edificante, visti gli interessi del gruppo, aprire una piccola parentesi non tanto sulla cinematografia femminista quanto, piuttosto, sulla liceità di queste critiche che il femminismo muove al cinema di genere: di genere maschile.

[Serbilla]

La liceità c’è tutta. Poi si può discutere sulle argomentazioni. In ogni critica esistono argomenti ben sostenuti e argomenti non ben sostenuti. Non esistono critiche illecite.

[Autore]

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