La disumanizzazione dell’artista-operaio / 18 Maggio 2020 in Un tranquillo posto di campagna

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Un tranquillo posto di campagna, distribuito nel 1968, anno della contestazione, rappresenta l’incursione più esplicita di Elio Petri nel genere thriller/horror ed è un aspetto interessante della filmografia di Petri, perché i suoi “film politici” a venire (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto e Todo modo) includono elementi perturbanti che, seppur sublimati da temi e contesti apparentemente ben poco orrorifici, inoculano paura nello spettatore, parlando di disagio sociale, inadeguatezza del sistema economico e inadempienza delle istituzioni.

Qui, il processo è abbastanza differente, perlomeno nelle premesse. Un tranquillo posto di campagna sfrutta una situazione da film di genere (villa abbandonata con annesso fantasma tormentato, un contesto ispirato dal racconto La bella adescatrice, 1911, dello scrittore inglese Oliver Onions) per mettere in scena il malessere del protagonista e la sua deriva nella malattia mentale, parlando in maniera alternativa di disumanizzazione del lavoro.
Leonardo (Franco Nero) è un pittore sperimentale che ha smarrito la vena creativa, oppresso dalle richieste di un mercato alla continua ricerca dello shock e della sensazione (non solo artistici) e di una società incurante dell’educazione all’Arte del popolo. Utopisticamente, Leonardo vorrebbe che tutti, adulti e bambini, avessero la possibilità di dedicarsi alla pittura, almeno un’ora al giorno, con materiale ricevuto in dono. Disconosce la figura dell’artista-eletto e confida in una liberalizzazione dell’Arte e a una sua diffusione priva di schemi e dogmi élitari e commerciali.
Ma la sua agente e amante Flavia (Vanessa Redgrave), ben lontana dalla filosofia di vita e dagli ideali di Leonardo, gli impone ritmi produttivi innaturali, sproporzionati rispetto alle esigenze della sua creatività.

La prima parte del film è solida ed esprime bene il tormento di Leonardo, costretto in un atelier-bunker a produrre arte in serie.
La somiglianza tra Leonardo e l’operaio Lulù di Gian Maria Volonté ne La classe operaia… (realizzato da Petri solo nel 1971) è lampante. Lulù, ancora poco consapevole della spersonalizzazione a cui è soggetto (oppure, restio ad ammetterla), si vanta: “Io ho una tennica per concentrami. Mi fisso col cervello: penso a un culo. Qui dentro, non c’è mica altro da fare. Visto che dobbiamo lavorare, lavoriamo no?”. E, ancora, alla catena di montaggio: “Un pezzo, un culo!”. Leonardo e Lulù associano la propria produttività al sesso gretto: in particolare, il pittore riesce a essere ciò che mercato, agente e pubblico vogliono che sia solo quando si nutre di pornografia. In realtà, Leonardo sembra incapace di compiere un atto sessuale: lo vediamo a letto con Flavia, allunga le mani su varie donne, ma non conclude mai nulla. Infine, dorme nello stesso letto della domestica e del suo fidanzato, incurante della loro intimità, come un bambino. Leonardo esplica la propria sessualità solo in funzione dell’Arte (e, viceversa, la sua Arte trova espressione solo se veicolata dal sesso).
In questo senso, è emblematica la scena in cui il pittore, ormai definitivamente confuso, prova ad accoppiarsi con la fantasia (o, nella sua mente, il fantasma) della defunta contessina Wanda, che, poi, diventa un suo doppio (anzi, un suo multiplo, grazie agli specchi posizionati nella stanza).
In questo senso, a proposito dei corsi e ricorsi petri-ani, non è neppure un caso che il destino di Militina, il collega operaio di Lulù, e di Lulù stesso sia simile a quello di Leonardo il pittore: la pazzia e il manicomio.

La seconda parte del film, quella dedicata allo sviluppo dell’ossessione necrofila di Leonardo, mi è sembrata più confusa, meno incisiva, temo, dal canto mio, per via della descrizione della provincia veneta (che fa tanto quella romagnola del Bolognini di Gran bollito e del Pupi Avati de La casa dalle finestre che ridono, ma, poi, guarda caso, Avati ha scritto un libro e diretto un altro film di genere, Il signor diavolo, che, come il film di Petri, hanno luogo nei dintorni umidi ed evocativi di Venezia). Personaggi grotteschi, dicerie pruriginose, pratiche occulte. Petri usa tutto l’inventario del ritratto a tinte fosche della provincia della Bassa come pretesto per la propria critica sociopolitica, ma il film ne perde in coesione e sbanda un po’.
Gli inserti sperimentali, presenti fin dall’inizio sia in termini di montaggio che di uso di musiche originali dissonanti e quasi scherzose (composte da Ennio Morricone ed eseguite dal Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza), e quelli ero-soft, prendono spesso il sopravvento, frammentando il ritmo del racconto.

Interessante la fotografia firmata da Luigi Kuvellier, basata su toni (alternativamente) neutri e violenti, in cui domina il rosso, abbinato al nero. Queste scelte cromatiche si riversano anche sulla foggia dei costumi dei protagonisti, spesso rigorosi, dal taglio geometrico (a eccezione del mobile abito scarlatto di Wanda).

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