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Il lungo addio

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Il lungo addio: è ok per me / 10 Marzo 2015 in Il lungo addio

Bel noir 70’s, disincantato e, a tratti, surreale.
Datato nell’adattamento dei dialoghi italiani, ma -complici i “mostri” del doppiaggio italiano impiegati (da Pino Locchi a Cesare Barbati, passando per Amendola)- evocativo di un certo cinema a stelle e strisce maschio e rude, personalmente assai gradito.

Gould mollemente ironico, bel Marlowe davvero. La scena della truffa al gatto è una bella “lente” sul personaggio. Un uomo versatile, pratico della vita e delle sue ombre, nulla sembra davvero scomporlo: emblematici i suoi viaggi in Messico con completo scuro e cravatta, una divisa fuori posto vestita con nonchalance.

In generale, Il lungo addio è un bel viaggio dietro le cortine della scintillante California dell’epoca, un racconto che decontestualizza dal punto di vista temporale il romanzo di Chandler da cui è tratto, trovandogli una nuova ed adeguata collocazione, contemporanea al periodo dello riprese, in stile da docu-fiction, se vogliamo.
Finale gelido, secco ed inaspettato negli sviluppi.
Ho apprezzato particolarmente il piccolo dettaglio conclusivo sui titoli, con Marlowe che, quasi una sagoma indefinita sullo schermo, afferra una piccola donna sconosciuta e accenna due passi di danza con lei: il passato è passato, coi suoi tradimenti e le sue follie, altro giro, altra sigaretta.
Chi dice che Inherent Vice è la versione lisergica di questo film non sbaglia affatto, l’udienza è tolta.

Nel cast, uno Schwarzenegger non accreditato, ma riconoscibilissimo, super-muscoloso e con zazzera bionda e liscia a caschetto.

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Rip Van Marlowe / 13 Ottobre 2014 in Il lungo addio

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

il lungo addio è un noir ispirato all’omonimo, splendido romanzo di Raymond Chandler ambientato negli anni ’50 e con protagonista Philip Marlowe, investigatore tutto d’un pezzo dagli alti valori morali (e dalla sigaretta facile), in perenne lotta con la società e l’ordine da esso costituito.
Altman, noto per le sue opere revisioniste (vedi I compari), sposta la locazione temporale negli anni ’70 lasciando però Marlowe immutato, “come se fosse stato addormentato per vent’anni e poi lasciato libero per le strade di Los Angeles”, disincantato cavaliere errante fuori posto in una società in cui non si identifica e che tanto meno lo accetta.
Il Marlowe altmaniano viene raffigurato come un perdente, un malinconico lupo solitario che si lascia trascinare dagli eventi del film senza mai effettivamente prenderne parte attiva: pur se si tratta di donne ambigue, gangster violenti o scrittori hemingwayani ubriaconi, Marlowe mantiene il suo atteggiamento passivo, quasi rassegnato, cercando continuamente la verità sul suo amico Lennox, della cui innocenza è convinto, fino all’atto finale in cui dovrà dolorosamente prender atto della realtà dei fatti.
Al sicuro in Messico, Lennox ammette senza rimorsi d’essere il colpevole e di aver approfittato della fiducia di Marlowe, dandogli inoltre del “born loser”. E’ evidente come i nuclei principali del film siano l’amicizia e il tradimento: così come il gatto, tradito da Marlowe, scompare dal resto del film, anche Lennox rompe la sua amicizia con l’investigatore con un gesto troppo grande per essere perdonato.
Ed e’ proprio qui che Marlowe prende la sua rivincita, rispondendo “Yeah, I even lost my cat” (sciaguratamente mal doppiato nella versione italiana) per poi uccidere Lennox. Marlowe abbandona finalmente la sua passività e cambia a modo suo lo scorrere degli eventi, un atto di ribellione verso la sua natura di loser e una totale rottura dello stereotipo dell’investigatore tanto caro al cinema noir.
Magistrale la regia, con la cinepresa sempre in movimento (per accentuare il voyeurismo dello spettatore, disse lo stesso Altman), e ottimo cast d’attori in cui primeggiano Gould, personalmente il miglior Marlowe mai apparso sullo schermo , e “Johnny Guitar” Sterling Hayden. La splendida fotografia notturna di Zsigmond completa quest’incursione di Altman nel genere noir, regalandoci una delle sue opere più originali e belle.

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Marlowe 2.0 / 19 Settembre 2014 in Il lungo addio

Altman rifà un po’ il trucco all’hardboiled, con un risultato sorprendente.
C’è Elliot Gould al top di una carriera destinata poi a un lungo declino, nei panni di un Marlowe assolutamente perfetto nonostante la “modernizzazione” operata dal regista.
Sigaretta che pende dall’angolo della bocca, battuta sempre pronta, flemmatico, imperturbabile davanti alle minacce del malavitoso (il regista Mark Rydell) come davanti alle vicine in deshabillé.
E c’è un massiccio e barbuto Sterling Hayden, altro attore dalle alterne fortune, in gran vena artistica per il ruolo dello scrittore alcolizzato, irascibile e decadente.
Sulla regia, c’è solo da ammirare estasiati; da antologia il piano sequenza tra la spiaggia e la villa a Malibù, con inquadrature sovrapposte grazie al riflesso delle porte finestre.
Laconico e magnetico il refrain al piano di Williams/Mercer, riproposto qui e là in varie versioni; la migliore in un fumoso locale con la voce rauca, un po’ in stile Tom Waits, di Jack Sheldon.
Finale gelido e reciso, giustamente entrato nella storia del cinema.

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