30 Agosto 2013 in Decalogo 2

Una vita e una morte sembrano indissolubilmente congiunte e solo un falso giuramento – in questo senso la trasgressione indiretta al secondo comandamento del titolo –riesce a sciogliere il legame e a far trionfare la vita in un lieto fine inaspettato. Ma i toni sono fortemente drammatici, nelle atmosfere come nei dialoghi e nella predominanza del silenzio, di tanto in tanto prepotentemente rotto da musiche malinconiche o da invadenti suoni di telefoni o campanelli. Il silenzio serve forse a sottolineare un’alterità, a porre una distanza critica rispetto agli eventi: questo è anche un possibile significato del famoso “testimone silenzioso” che compare misteriosamente in tutto il Decalogo (in questo caso nel ruolo di infermiere); noto anche come “angelo”, appellativo appropriata nella misura in cui rappresenterebbe una figura mediatrice, capace di inserire un’alterità all’interno della trama degli eventi; l’angelo e il silenzio sono inseparabili.
Alcune scene molto esplicite hanno una grande potenza simbolica e sono capaci di riassumere in sé i principali elementi del film. Non stupisce la ricorrenza del tema del liquido (che non è certo una prerogativa di Kieślowski, basti pensare a Tarkovskij), che può ergersi a simbolo di vita o di morte, valorizzare il silenzio o il fracasso, la memoria o l’oblio, l’immobilità o lo scorrere del tempo. Se nel Decalogo 1 l’improvviso spargersi dell’inchiostro aveva annunciato l’inaspettata tragedia, qui lo sgocciolare dell’acqua (come sangue) da un soffitto in rovina enfatizza il dolore della malattia, la vita che se ne va, salvo poi improvvisamente risorgere; il capovolgimento finale è stavolta preannunciato dall’efficace scena della vespa invischiata nello sciroppo dal quale riesce faticosamente e insperatamente a uscire. Il contrasto fra vita e morte è già implicito nella contrapposizione fra la cura per le piante del medico e l’azione disperata e distruttiva di Dorota, che ne strappa a una a una le foglie per poi piegarne il gambo – scena bellissima, mi ha colpito molto. Il medico è il passato, che non sa far altro che rifugiarsi nella memoria; Dorota è nevriticamente dispersa nel presente tanto da non sapersi promessa di futuro (il figlio che ha in grembo e che sta per distruggere). Il futuro forse redimerà il passato, ma è il passato a salvare il futuro – dandosi però (come sempre) nella forma dell’illusione e dell’inganno.

Dal Blog di Un Fachiro al Cinema:
DECALOGO II

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