Cercando un nome / 27 Ottobre 2016 in Sin Nombre

Senza nome sono i membri della gang messicana di cui fa parte El Casper (Edgar Flores), nome di battesimo Willy, e El Smiley, giovane rampollo che vi entra come Benito ma solo dopo essere stato preso a calci e pugni per 13 secondi e aver ucciso un membro della banda rivale. Senza nome sono i numerosi clandestini che si ammassano sulle rotaie in attesa che arrivi il treno per il viaggio della speranza verso il confine e gli Stati Uniti. Senza nome è l’adolescenza di Sayra (Paulina Gaitan, la Tata Escobar di “Narcos”), una delle fuggitive in cerca di un lavoro, di una dignità; senza nome sono i sentimenti e le relazioni che faticano ad emergere in un quadro così crudo, talvolta spietato, dipinto da Cary Joji Fukunaga. È il titolo del suo esordio, “Sin Nombre” appunto: un’opera spiazzante proprio se concepita come esordio, e se allo stesso modo ci poniamo di fronte ad essa per giudicarla.
Fukunaga prima di diventare famoso per aver diretto la celebre prima stagione di “True Detective”, ha girato le zone più in ombra del Messico, tra le case senza stucco e la terra polverosa, tra l’odore di sudore e sangue della sofferenza; ha cercato un contatto con i numerosi “desperados” lasciati ai confini di una realtà sociale povera, critica, in cui vige la legge del più forte; ha ascoltato le loro testimonianze, di chi ha tentato quel viaggio impossibile sul tetto di un treno, tra la pioggia e il caldo rovente, cercando di stare sveglio per non cadere, con la consapevolezza di essere aggrappati ad un esile filo, che in ogni possibile istante, cavilli burocratici, incidenti, o banditi armati avrebbero potuto tagliare. Così la macchina da presa del regista giapponese naturalizzato americano si immerge in queste realtà, non cerca verticalità di sguardo, ma resta diretto ed orizzontale, sfruttando inoltre un montaggio misurato che si affidi alla verosimiglianza di un piano sequenza, e rispettando una sceneggiatura per lo più compatta, tesa tra la realtà e la fiction, sebbene la seconda forzi oltremodo la prima in un paio di circostanze: errori che negli esordi sono abbastanza comuni.
Su quel treno viaggia Sayra, con il padre e lo zio. E sul quel treno El Casper uccide il capo della sua banda, per vendicare la morte della fidanzata, uccisa dallo stesso dopo un tentativo di stupro. I due si incontrano. Il primo dialogo è semplice e diretto: lei si presenta, e lui fa lo stesso chiamandosi Willy. Tra le meravigliose modulazioni di colore e sfumature del paesaggio messicano che si stagliano sulla sfondo del treno in corsa, ed impresse sullo schermo da Fukunaga e dalla curata fotografia di Adriano Goldman, anche la realtà circostante sfuma, perde la fissità del presente e si proietta nel futuro incerto, ma perciò consolatorio, e così i due giovani vivono attimi sospesi di sogno, a donare nuova linfa di speranza al loro personale futuro, proprio a partire da una prospettiva che prevede non il singolo, la solitudine, e l’abbandono, ma un “essere in due”, un condividere, un far coincidere. La speranza di Sayra diventa la stessa di Willy: una vita diversa, che acquisti senso nella misura in cui si riesce a spenderla per l’altro. E così il colpo di pistola della violenza e della criminalità potrà uccidere, certamente, ma un uomo “con un nome”.

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