Dacceli due colpetti di machete / 2 Gennaio 2018 in Safari

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Una coppia di teutociccioni anzianotti si spalma crema sotto un sole africano, e posa di fronte all’occhio della camera. Siamo in I guess Namibia, i due fanno parte di un gruppo di turisti cacciatori, coppie, giovani, vecchi, famiglie. Pagano un botto, siamo austriaci danarosi, per essere portati dalle guide del posto in prossimità delle prede, leoni, gnu, zebre, nomi-di-bestie-che-ignoro, impala, tutto e tutti con un listino prezzi, poi prendersi tutto il tempo che serve per mirare e PAM! Da vicino si seguono le fasi della caccia, varie battute, il rituale dei complimenti dopo e della messinscena del cadavere dell’animale, la testa alzata e rivolta all’obiettivo per la foto ricordo insieme al sorriso dell’uccisore. Frammezzo, gli stessi cacciatori raccontano, in sale e saloni grondanti trofei alle pareti, teste e testoni, della caccia, del rapporto uom-animale, dei nigga che in fondo son bravi, della sensazione, quella specie di orgasmo che si prova quando si spara e il colpo va preciso al cuore diritto dove era indirizzato. E dopo? Sigaretta? Ma non solo. A macchia di, vi sono anche i volti serissimi degli africani che li aiutano, loro sono muti, e mangiano cervella. Ma non solo, perché ci sono due, e dico due signore e signori, il film a cui portare la tipa gnocca appena conosciuta che però è animalista convinta o veggie. Eh? Due scene di scorticamento, lunghissime. Di una zebra, ti spiego: si toglie la pelle coi coltelli, sotto la pelle è tutto bianco e filamentoso, e poi ovviamente gli zoccoli vanno staccati uno per uno. E di una giraffa, ti spiego: ci si mette in 5 con un argano per tirare la giraffa sul camioncino, piegarla in 18 e spostarla. Arrivati, pelle coi coltelli, il collo va STACCATO con una grossa accetta, TAC, TAC, TAC ma, che credevi fosse finito? Ci sono le gambe da staccare con una sega e lo sventramento, mai più senza, dal taglio escono budella gonfie e gorgoglianti, gli omini lavorano da matti, si tira tutto fuori. Infine, si mangia il cervello, in silenzio. Uno degli macellai passa sotto con una pompa per lavare via il sangue.
Il primo film che vedo di Ulrich Seidl, simil-documentarista austriaco abituato a gente che esce dalla sala, non sarà l’ultimo perché è pazzo come una zebra – o quel che ne resta. Ad oggi, non potendolo inquadrare in una serie, non so fare il discorso generale. Nel particolare su questo, la camera segue, quasi sempre frontalmente in piani statici prolungati, i protagonisti, persone vere che non riesco a comprendere come si siano rese disponibili a mostrarsi così come sono. Cioè orribili, idiote, ricche, razziste e colonialiste. La critica, l’ironia, la vivisezione della miseria umana investe tutto quello che è uomo e non natura, pertanto (Seidl è matto e) l’idea è che non mostrare qualcosa non la renda meno reale, quel meccanismo umano per cui possiamo accettare le disumanità se sono lontane/fuori dal nostro campo di percezione. Dunque bando agli ipocrisievoli (??) e vediamo tutto: crudo (ahah era tutta roba cruda di sicuro ahah ok glom), duro, reale – o iperreale?, al limite della pornografia della violenza in quei film degli anni ‘80 alle 3 di notte su ItaliaUNO! (ma chi guarda più la televisione bahbah). Altrettanto lecito è infatti leggere tutto come facile provocazione, faccio qualcosa per schifare lo spettatore, e andarsene dalla sala. Personalmente ci vedo l’idea dietro, provocatoria ma non a vuoto, e salda in piedi sulle gambe (al contrario della giraffa, hélas), con sullo sfondo le colline africane e l’uomo bianco che non è che sia stronzo, è che gli vien proprio spontaneo.

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