Recensione su Metti la nonna in freezer

/ 20185.8115 voti

Black comedy all’italiana / 29 Marzo 2018 in Metti la nonna in freezer

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Commediola di buoni spunti, abbastanza inediti per l’attuale panorama italiano, sulla scia di un particolare spirito corrosivo inaugurato in precedenza da film come “Smetto quando voglio” e “Lo chiamavano Jeeg Robot”, dei quali “Metti la nonna in freezer” recupera i toni più dissacranti, senza eguagliarne però l’acutezza giovanile e la capacità innovativa. Se infatti quest’ultima pellicola serve nel piatto un tema amaramente attuale – ossia quello della precarietà in Italia, delle truffe ai danni dello Stato, del nepotismo, della burocrazia che rimpalla ad nauseam le responsabilità tra i vari enti amministrativi, a danno tanto dei lavoratori quanto delle imprese che puntualmente annegano dentro il vortice di mediocrità, incompetenza e malaffare – e se condisce la superficie con un abbondante humor nero, nel complesso ben dosato e dalle ghiotte potenzialità, alla prima forchettata con cui si punta al cuore della pietanza, tuttavia, l’insieme si affloscia come un misero soufflé. Colpa di una storia d’amore fuori posto, che ammollisce anche il resto; e colpa di una sceneggiatura che si perde dietro ad una serie di contraddizioni, mentre dilata allo stremo i tempi delle gag, alcune simpatiche ed efficaci, riecheggianti classici come “Weekend con il morto”, “Nodo alla gola” o “Mrs. Doubtfire”, altre decisamente superflue e trascurabili.
Miriam Leone, dalla presenza mai così brillante e vitale, ce la mette tutta ad arricchire la piattezza di un personaggio della cui psicologia si sa poco o nulla, se non ciò che può servire ai meri sviluppi della trama. Come quel dettaglio dell’abbandono materno, avvenuto in tenera età, e scoperto all’improvviso dallo spettatore, evento necessario affinché almeno qualcosa possa giustificare, pur nella sua banale superficialità, l’unione dei due quasi-innamorati per il resto antitetici: lui davvero cotto, grazie ad un provvidenziale colpo di fulmine; lei tediata e stomacata fino a poche scene prima, e poi miracolosamente scioltasi in un brodo di giuggiole, senza alcuna vera transizione messa a tracciare l’improbabile evoluzione del sentimento.
Fabio De Luigi, a sua volta, non impersona altri che Fabio De Luigi, costretto ad un’impostazione macchiettistica da uno script ancora troppo tarato sulla sua immagine televisiva. Ed è un peccato, perché, ad esempio verso il finale, egli si mostra all’altezza di una minima serietà evolutiva, anche quando cioè smette di gigioneggiare nevroticamente e addirittura riesce ad accettare certi compromessi dapprima impensabili, non senza svelare, peraltro, un acume investigativo un po’ troppo repentino. Alcune scenette appaiono comunque ben congegnate, ad esempio quelle in cui scattano i blitz della Guardia di Finanza, con atmosfere apparentemente assurde e grottesche, ma di fatto credibilissime, se si pensa a come la realtà talora superi la finzione.
Se a sorreggere il film ci sono la Leone e De Luigi, ben poco si può dire riguardo i personaggi (e gli attori) secondari, provvisti di caratteri per lo più scontati e prevedibili, con le solite mimiche ed espressioni che, se all’occasione riescono a strapparci un sorriso, per il resto stancano in fretta.
Da un punto di vista tecnico, le note di merito sono essenzialmente due. La prima da rivolgere al montaggio, molto frizzante e veloce, in perfetta coerenza con alcune trovate registiche, e non a caso i due ambiti sono gestiti dalla stessa persona, Giancarlo Fontana, coadiuvato alla regia da Giuseppe Stasi. Il secondo apprezzamento va invece rivolto alla fotografia di Valerio Azzali, sovrabbondante di tonalità malariche e verdognole, volte a sottolineare tanto il leitmotiv cadaverico quanto l’illuminazione al neon tipica delle celle frigorifere e mortuarie: entrambi gli elementi sottintesi o evidenziati a partire dal titolo del film, ma traslati in un ambiente che anziché apparire caldo e accogliente, come ci si aspetterebbe dalla casa di una nonnina, sembra quasi soffocare nell’ambiguità spettrale delle luci e nella pesantezza dell’arredamento kitsch.
In definitiva, “Metti la nonna in freezer” è un film gradevole, non propriamente scacciapensieri a causa della tematica affrontata (e ben vengano simili argomenti!), ma con intenzioni fresche e buoni interpreti, malgrado le opportunità premesse non siano state sfruttate a pieno. La speranza è che esso contribuisca ad uno svecchiamento della commedia nostrana, ammuffitasi troppo a lungo sotto un cumulo di perbenismo a buon mercato, di comicità logora e pacchiana, e di vacui manierismi.

1 commento

  1. Stefania / 27 Luglio 2021

    Sono estremamente d’accordo con te, in particolare su alcuni punti: (negativi) storia d’amore implausibile, superflua, comprimari sacrificati alla sola macchietta, De Luigi sempre uguale a se stesso; (positivi) montaggio abbinato a determinate scelte di regia.
    Purparlé: a proposito della fotografia malarica, che, correttamente, associ al tema della morte, è curioso che la saturazione dei colori sia simile a quella della trilogia cinematografica di Smetto quando voglio, in cui la scelta cromatica -invece- ricorda un ambiente “chimico”, legato al mondo delle droghe.

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