Il cinema italiano odierno e la via della natura / 12 Marzo 2023 in Lumina

Nello sconforto che suscita il livello generale del cinema italiano, un bel segnale arriva da questo ispirato e suggestivo lavoro. Le sue atmosfere metafisiche e rarefatte, la recitazione in sottrazione, il ritmo dilatato, ci dicono che c’è una strada alternativa all’attuale tendenza ipernaturalistica, televisiva, industriale, fiction style.
E’ sempre esistita una differenza tra due modi di fare cinema (o teatro): una distaccata e astratta, che non vuole spiegare ma far riflettere o contemplare, creando situazioni metaforiche e mantenendo distinti finzione artistica e realtà; l’altra mimetica e realistica, che punta all’immedesimazione psicologica dell’attore col suo personaggio e al coinvolgimento emotivo dello spettatore.
La narrazione realistica, adottata soprattutto dalle scuole di recitazione americane, ha prodotto grandi film e prove attoriali, e non posso esserne un detrattore. Lo divento quando questa si lega ai principi della comunicazione di massa, per i quali il coinvolgimento degli spettatori viene massimizzato, diventando prodotto di intrattenimento, puntando alla pancia, alla semplificazione, al didascalismo, all’eccesso, allo stereotipo, al paternalismo, al consenso, al politicamente corretto, alla finta spontaneità, all’esecuzione veloce e sciatta, come avviene in tanta fiction televisiva e cinematografica.
Il lungometraggio in questione mostra molto bene la differenza delle due strutture formali, relegando fortunatamente a pochi minuti la parte delle riprese video dallo smartphone, povere e banali, mal recitate. Senza dubbio un’esigenza della storia che si voleva raccontare: il dispositivo rappresenta il solo legame umano dell’astratta protagonista per buona parte del film, e trasformandola in spettatrice, rafforza il senso di straniamento. Ma quei video mi suggeriscono anche un pensiero malevolo: se la specie scomparsa, quasi estinta, è quella immortalata nello smartphone, forse non è stata una gran perdita!
Risulta quindi poco felice, a mio parere, l’adesione al reale tecnologico metropolitano, un modo di ammiccare allo spettatore, al suo utilizzo abituale dei dispositivi elettronici, al suo modo di mostrarsi e vedersi. E’incoerente considerato il registro lirico, tarkovskijano, anticommerciale, delle sequenze portanti.

Ma rimane un’opera affascinante e suggestiva, che rende con forza metaforica il senso della perdita, di un regista capace di uno sguardo autoriale, maturo, raffinato e contemplativo, con una protagonista magnetica ed eterea, che diventa concreta nel suo integrarsi agli splendidi scenari senza tempo in cui si muove, replicandone l’essenzialità. Non esistendo una vera trama, ma frammenti di passato e di memoria in un’ambientazione dal sapore postapocalittico, viene il sospetto di trovarci per tutto il tempo nella mente della giovane vagabonda. Le atmosfere e il brano musicale fanno pensare, non a caso, a David Lynch.
Curata ed ipnotica è anche l’illuminazione, a volte dolce e crepuscolare, altre volte potente e di grande impatto. Che la luce sia un elemento centrale e simbolico ci viene detto fin dal titolo. Accompagna la protagonista nel suo incedere smarrito e solitario, ricevendone l’energia necessaria. Non mi sembra però che la rappresentazione della natura sia idealizzata, nè spiritualizzata e new age. Non è luogo di consumo per la vacanza alternativa rigenerante. Più che di energia qui la natura, nel riconfigurare l’architettura, è dotata di entropia, di decadimento. E’ l’uomo che si adatta alle sue regole, non il contrario. E la prima disposizione umana che viene meno è la divisione della società in classi.

Ci troviamo davanti a una salutare via alternativa per il cinema italiano, aperta da altri giovani autori come Frammartino, Marcello e la Rohrwacher, la via della natura, in cui la presenza umana è solo parte di un paesaggio più ampio, la via della rarefazione, per lo stile minimalista e sperimentale. Si dirà che è più facile sperimentare, quando non c’è la necessità di incassare, ma resta comunque un’operazione coraggiosa.
Opere del genere fanno infatti molta fatica a trovare una distribuzione accettabile. Andrebbe prevista e reintrodotta per legge, in ogni città grande o media, almeno una sala d’essai, pubblica o privata, visto che oggigiorno non esistono più nemmeno i cineforum delle sezioni di partito, in grado di procurarsi le pellicole realizzate al di là della Cortina di ferro, ed altre escluse dal circuito della grande distribuzione.
Poi ho una mia personale convinzione: il grande pubblico si pone passivamente davanti al prodotto audiovisivo; in altre parole, vuole vedere quello che è già abituato a vedere. Basterebbe allora solo creare nuove e più virtuose abitudini.

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