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L'âge d'or

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L’età dell’oro / 13 Ottobre 2015 in L'âge d'or

Il secondo film di Bunuel è, come il precedente Un chien andalou, un’opera surrealista nata per far discutere.
In realtà L’age d’or si può ritenere il primo lungometraggio di Bunuel e il primo lungometraggio surrealista in assoluto, considerato che Un chien andalou è soltanto un corto della durata di un quarto d’ora circa. Come quest’ultimo, anche L’age d’or fu creato in collaborazione con il grande Salvador Dalì (che tuttavia, questa volta, figura soltanto come co-sceneggiatore, essendosi limitato a fornire alcuni suggerimenti – pare per corrispondenza – all’amico regista aragonese).
Eppure L’età dell’oro è meno famoso del predecessore, forse perché meno criptico e più diretto nel suo significato.

La assoluta particolarità dell’opera si manifesta fin dai primi minuti, che mostrano un vero e proprio documentario sugli scorpioni, con allusione più o meno diretta nei confronti della società dell’epoca. Segue la storia di una coppia frenata nei suoi intenti amorosi dal moralismo di una società bigotta, impersonata dagli esponenti istituzionali del clero e delle autorità.
Un film che attacca pesantemente il mondo borghese e quello religioso.
L’anticlericalismo si presenta fortissimo in tutta la pellicola, con immagini volutamente provocatorie: dai prelati sugli scogli che diventano degli scheletri di cui restano soltanto i paramenti, al vescovo buttato dalla finestra; fino alla scena finale in cui un uomo dalle parvenze di Gesù Cristo esce dal castello delle 120 giornate di Sodoma di Le Sade, per poi rientrarvi, apparentemente per commettere un crimine – l’uccisione di una delle libertine – e uscire nuovamente, invecchiato e con le fattezze modificate.
Un film destinato a fare scandalo e che infatti venne immediatamente censurato e messo all’indice per parecchi decenni.
Vi erano del resto anche alcune esplicite allusioni erotiche, destinate a creare scalpore per l’epoca: il riferimento va ovviamente alla scena in cui Lya Lys succhia voluttuosamente l’alluce di una statua nel giardino della villa, dopo che la coppia era stata per l’ennesima volta bloccata nello sfogo delle proprie pulsioni passionali.
Per il resto, sono molteplici le figure surrealiste che si susseguono – con i loro reconditi significati – per tutta la pellicola, donando un’enorme potenza visiva alle immagini: dal borghese con il viso ricoperto di mosche, al viso della protagonista carezzato da una mano dalle dita mutilate; dalla giraffa gettata (insieme al prelato) dalla finestra della villa, alla mucca coricata sul letto.
Alcune di queste impressioni surrealiste sfociano in vere e proprie immagini horror, come nel caso del viso del protagonista che d’improvviso inizia a grondare sangue.
L’age d’or fu uno dei primi film sonori europei (anche se gli scambi di battute sono ridotti) e presentava una colonna sonora classica di tutto rispetto.

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Il veleno dello scorpione / 18 Ottobre 2013 in L'âge d'or

Dopo lo choc culturale sortito dal suo corto d’esordio, Un chien andalous, Buñuel affonda il colpo. Si avventa con rabbia giovanile sulla Morale occidentale, religiosa e convenzionale, con un lungometraggio irto di simboli che rimandano alla Psicanalisi, stracciando ogni logica temporale. Ogni fotogramma ha il suo significato ma si presta a più d’uno, come giustamente ha fatto notare – non senza una goccia di sarcasmo – la critica “dizionaria”.
Partiamo da un’isola brulla, rocciosa, e da un covo di briganti straccioni e malfermi, che intendono accogliere ad armi spianate una processione di “maiorcani” – ufficiali, preti, notabili – sbarcata per rendere omaggio agli scheletri di arcivescovi, e “benedire” una specie di piccolo altare di pietra. Durante il rito, una coppia viene separata da un amplesso animale nel fango.
Da questo momento, l’uomo viene separato suo malgrado dalla donna e viene portato a Roma (l’altarino si rivelerà essere la pietra fondante dell’Urbe) da una coppia di gendarmi in borghese. Nel percorso di ricongiungimento di queste due “anime carnali”, culminante nella scena erotica più famosa del film in cui una espressiva Lya Lys succhia voluttuosamente l’alluce di una statua, assistiamo a una serie sconclusionata di immagini tutte da decifrare. Si può ad ogni modo cogliere al fondo di tutto l’intento dissacratorio di Buñuel, che mette in scena ostensori in taxi, papi che volano dalla finestra, ma anche un cagnolino preso a calci, un cieco buttato brutalmente a terra, una donna schiaffeggiata e un bimbo steso a colpi di fucile per un innocuo dispetto. Scombussolare la platea, questa la missione artistica del regista spagnolo; che non è appunto una missione “sociale”, in quanto il mezzo traumatizzante è l’Arte, senza le briglie di una qualsivoglia etica, attenta alla comunicazione di corpi (l’andatura sciancata ed esausta dei briganti, l’energia erotica degli abbracci tra i due protagonisti nel giardino) che si muovono in un ricchissimo assortimento simbologico (qui sarebbe inutile fare esempi, il film ne è pregno; ma basti pensare a come da un documentario sugli scorpioni Buñuel approdi senza apparente soluzione di continuità ad una storia di esseri umani…).
Il finale, estremamente enigmatico, ci porta ad un impervio castello dove un mefistofelico Duca di Blangis ha appena concluso una terribile orgia violenta; dal castello lo stesso esce con le oltraggiose fattezze di un Cristo disorientato e afflitto.

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