Erotismo in Technicolor / 23 Luglio 2015 in Duello al sole

Spettacolare polpettone sentimentale in salsa western, con una fotografia satura, quasi psichedelica, esaltata da un mirabolante e virtuosistico Technicolor (con un uso delle silhouette e dei tramonti infuocati che Coppola, per esempio, avrebbe citato qualche decennio dopo): un prodotto non esattamente tipico della pur boriosa Hollywood che fu e che, con i soldi di produttori come il “despota” Selznick, incantava le platee con melodrammi poco credibili eppure avvincenti di siffatta risma.
Neppure un minutaggio francamente esagerato come quello di Duello al sole (127 minuti), infatti, annoia il puranche smaliziato spettatore contemporaneo che mi fregio di rappresentare, ammaliato da esagerazioni narrative e visive a metà strada tra il pacchiano ed il dramma classico, radicalmente biblico.
Ci sono le novelle versioni di Abele e Caino, una conturbante Eva meticcia inconsapevole di essere mela e serpente, un dio-padre decisamente stolido e inevitabilmente arroccato sulle questoni morali più sbagliate possibili, un Eden corrotto da tempo.

Jennifer Jones fa il possibile per far dimenticare la santità di Bernadette Soubirous del film diretto da un altro King, Henry (1943), spremendo ogni fibra del suo corpo nel tentativo di trasudare erotismo e, curiosamente, vi riesce nei momenti più inaspettati, quelli più estremi e visionari: basti pensare all’assurda sequenza in cui lo strambo predicatore, palesemente attratto e al contempo turbato dalla sua incipiente nudità, la “esorcizza”. Tra inquadrature sghembe, reiterati inginocchiamenti, preghiere sconclusionate, la carne esplode, letteralmente: non vi è neanche più un corsetto a contenerla, solo una bizzarra coperta da peones strategicamente appoggiata al corpo della Jones.
L’attrice, imposta da Selznick (con cui era sposata) non è particolarmente credibile né nel ruolo di ragazzina sprovveduta (ma quanti anni ha, questa Perla?), né in quello di mezzosangue tentatrice, complice l’uso sulla sua pelle di un copioso ed imbarazzante fondotinta da baraccone e di un rossetto color vermiglio peccato stampigliato sulle labbra in maniera permanente. Eppure, a tratti, il bagliore dei suoi occhi (o dei suoi denti) nel buio, la vaporosità della sua chioma cotonata, la mutevolezza esagerata del suo sguardo colpiscono davvero il segno. Compare allora in scena l’ammaliatrice, puro oggetto sessuale attorno a cui ruota una storia estremamente banale: Duello al sole è un film erotico, nel vero senso del termine. Non vi sono nudità esplicite, certo (e, nonostante questo, fu un film particolarmente osteggiato dalla censura) ma è un compendio di situazioni scabrose, spesso solo evocate, sublimate ma indubbiamente equivoche.
Perla non ha una vera identità e ignora profondamente ogni cosa (odio, amore, senso della virtù, ecc.), non ha motivo di esistere (e con lei il film) se non in quanto simulacro del desiderio: ogni personaggio maschile pensa a questa ragazza come ad un corpo e nulla più, da difendere (il padre, Sam) o da sottomettere (Louis, il Senatore, perfino Jackie), a seconda dei casi.
Stupisce che un elemento narrativamente così esile regga l’intera vicenda. Eppure, vi riesce, senza tentennamenti.

Durante la visione del film, ho pensato continuamente ad Adolescenza torbida di Luis Buñuel: è come se la pellicola del regista spagnolo (girata quattro anni dopo) fosse una rilettura sardonica del film di King, depauperato della sua ricchezza visiva, ma, d’altra parte, arricchito da una migliore caratterizzazione dei protagonisti, quasi diabolici eppure più realistici di questi.

Esageratissimo eppure affascinante il finale, eros e thanatos, polvere e sangue alla massima potenza.
Accompagnamento musicale onnipresente, a tratti distonico (talora sembra voler alleggerire tensioni e turbamenti), assolutamente funzionale alla confezione.

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