Il diavolo veste Alice / 11 Ottobre 2020 in Alice e il sindaco

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Un film come Alice e il sindaco, scritto e diretto da Nicolas Pariser, mi ha fatto pensare a una cosa: quale altro cinema “nazionale”, se non quello francese, appunto, con la sua (oso dire) tradizionale propensione alla verbosità e al dialogo articolato, sarebbe in grado di mettere in scena con tanta concretezza una storia dall’assunto così surreale (un uomo che dichiara di non riuscire più a pensare), eppure tanto attuale e pregnante? In Italia, per esempio, oltre a -per esempio- Nanni Moretti, avremmo qualche autore in grado di affrontare con la stessa sincerità e qualità argomentativa un tema solo apparentemente astratto e filosofico e, al contrario, prepotentemente concreto? Attendo segnalazioni, ho davvero voglia di immaginare l’uno o l’altro autore cimentarsi con questo tipo di messinscena.

Al di là di queste mie soprassedibili riflessioni, fatte più per futile gioco che per altro motivo, penso che il risultato ottenuto dal film di Pariser sia davvero molto buono: Alice e il sindaco si risolve in un racconto asciutto ed efficace sul ruolo della politica (e della comunicazione politica) nella società attuale, dominata da dichiarazioni a effetto che, in 140 caratteri, tentano di riassumere orientamenti, declinazioni, analisi, finendo per mostrare una vacuità impari e una totale mancanza di aderenza alla realtà.

Il sindaco di Lione, Théraneau (Fabrice Luchini) dice di non avere più idee, di non riuscire a pensare, e chiede un soccorso, un supporto, che lo aiuti a risvegliare le sue facoltà intellettuali, per governare al meglio la sua città (e, forse, la Francia intera). Il suo staff gli affianca la giovane Alice (Anaïs Demoustier), una pragmatica e competente laureata in lettere che, alla soglia dei 30 anni, sta tentando di capire quale impiego potrebbe essere più affine agli studi condotti e alle esperienze maturate all’estero.
In realtà, Théraneau non ha mai smesso di pensare. Ma, probabilmente, percepisce lo scollamento tra le proprie riflessioni e l’apparato politico e burocratico in cui opera e ritiene che l’Idea propugnata dal singolo nulla o quasi nulla possa nei confronti della calcolata indolenza della politica contemporanea, votata all’apparenza e dimentica della sostanza.
Dal canto suo, la serissima Alice sembra confidare ancora nella forza delle argomentazioni e della dialettica, a sfavore dei meri slogan. Ma, in poco tempo, dopo essersi resa condiscendente, rischia di essere soverchiata dalle logiche di palazzo ed entra in crisi, praticamente come Théraneau, quando ravvisa che, scendendo a compromessi, il vuoto intellettuale che la circonda potrebbe diventare il perfetto habitat in cui vivere di lì in poi.

Alice e il sindaco è una versione “intellettuale” di racconti formalmente più pop come Il diavolo veste Prada, in cui un individuo che crede di poter migliorare il mondo mantenendosi saldo ai propri principi finisce per scontrarsi con l’ineluttabile macchina stritolatrice della realtà, rischiando di diventare uno dei denti dell’ingranaggio. Il meccanismo narrativo è lo stesso e stupisce quanto il tema dell’idealismo sia facilmente declinabile in più contesti, eppure con schemi ricorrenti.
Quel che, contemporaneamente, rassicura e sconforta del messaggio del film di Pariser si riassume non solo nel personaggio di Delphine (Maud Wyler), un’artista folle che tenta di squarciare il velo di Maya della politica sorda e cieca, ma anche nelle scene finali di Alice e il sindaco, in cui Théraneau e Alice si incontrano in vesti informali, come normali cittadini che conducono una vita lontana dalle aberranti logiche del potere, alla ricerca di un equilibrio intimo che pregano non venga scalfito ancora da quella politica senza volto e senza anima che viene chiamata a governare il loro vivere civile.

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