Recensione su Sing Street

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Il potere salvifico dell’Arte / 17 Novembre 2016 in Sing Street

“È un video Robert. È arte. E questo dura per sempre. È il perfetto mix tra musica e visuale, è lungo al punto giusto. Sopravvivrà nel tempo”. Basterebbe questa frase che Brendan (Jack Reynor), il fratello maggiore della famiglia del protagonista Conor (Ferdia Walsh-Peelo), dice al padre Robert (Aidan Gillen) per condensare felicemente i significati e il senso di una pellicola densa, audace, e semplicemente profonda come “Sing Street”.

Siamo in pieni anni ’80, una decade dove il cinema e la Tv in questo 2016 ci hanno riportato molto spesso (basti pensare al fenomeno Stranger Things), e in televisione passavano i primi video musicali: è a quelli che si riferisce l’affermazione di Brendan. Senza però sapere che lo sceneggiatore e regista, John Carney (“Once” e “Tutto può cambiare”), gli aveva messo in bocca, in realtà, la definizione precisa del suo film, e in senso più generale del cinema e dell’arte. Perché la storia di Conor detto “Cosmo” e della sua band musicale, i “Sing Street” del titolo appunto, è inserita dentro un film-musicale: un film che lascia spazio, respiro, alla musica, con pezzi che non solo fanno da colonna sonora, ma entrano e riempiono le inquadrature, in live performance magnetici e coinvolgenti. La musica è l’intelaiatura che tiene in piedi questo film sicuro e mai scomposto, talvolta adagiato su situazioni già viste e tipiche del coming of age, ma mai forzate o fin troppo palesate: alla fine l’adolescenza racconta ciò che è e ciò che spesso non è, i mondi in cui deve abitare e sopravvivere e le lotte che deve combattere, tra famiglie che si rompono e amori che non si compongono. Ma racconta anche di quei luoghi sicuri dove trovare riparo e conforto, i santuari dell’Arte, della musica nello specifico. Una pagina e una penna, una chitarra, talvolta restano gli unici strumenti per Conor per dire chi è, per esprimere la sua ricerca interiore e ciò che prova, per dichiarare il suo amore per l’enigmatica e insofferente Raphina (Lucy Boynton).

“Sing Street” è tutto questo, un inno alla musica e a quella “rivoluzionaria” degli anni ’80, un inno al fratello maggiore, un inno ad una felicità il cui quadro è fatto da pezzi di puzzle tristi, un inno all’amore, un inno alla potenza salvifica dell’Arte. “Sing Street” “è arte. E questo dura per sempre. È il perfetto mix tra musica e visuale, è lungo al punto giusto. Sopravvivrà nel tempo”. E “l’opera d’arte, se sfida il tempo, sembra passare oltre le regole della morte e, di conseguenza, ai diritti della natura. Essa allude all’ordine soprannaturale del miracolo ed è il miglior argomento di quest’ordine” (Stanislas Fumet).

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