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The Square

/ 20176.7108 voti

Lo spazio che non esiste / 26 Giugno 2018 in The Square

Film più interessante da commentare e di cui discutere anziché da vedere.
The Square apre molte parentesi, relative ad una installazione di un noto museo svedese. In questo spazio, asettico, l’unica regola è comportarsi bene con il prossimo, aiutarlo, ascoltarlo; concetto base di ogni democrazia che si rispetti, che si appellino alla buonsenso che oggi sembra utopia poter sostenere.
È una società consumista, in cui il divario tra i ceti sociali è percettibile, con la mediocrità della borghesia che viene più volte rimarcata.
Una società distratta, indifferente che si scatena soltanto sul web, manifestando la sua indignazione e disapprovazione attraverso uno schermo, senza alcun filtro.
Lo spazio in chiunque dovrebbe essere ragionevole, viene ignorato, invalicato: sembra appartenga ad una dimensione concettualmente distante, eppur vicina ad un solo passo.
Si tenta anche di dare una definizione all’arte e a delineare i suoi limiti. La manifestazione dell’artista che si impersona in un primate incarna gli eccessi di una forma di espressione puramente provocatoria, che genera scompiglio, imbarazzo e disagi; una sequenza interminabile che destabilizzare anche lo spettatore, a cui viene chiesto da che parte schierarsi.
Film intelligente ma non sempre facile da cogliere e da metabolizzare, complice un umorismo molto fine, quasi impercettibile, che spesso sfugge o che viene accolto con parecchia freddezza.

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Apocalittici e integrati / 4 Aprile 2018 in The Square

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Da Cannes 2017, dove ha vinto la Palma d’Oro, passando per gli European Film Awards 2017, dove ha fatto saltare il banco, vincendo qualsiasi cosa (6 premi, fra cui miglior film e miglior regia, cioè un riconoscimento in ogni categoria in cui era candidato), fino alla nomination agli Oscar 2018 fra le produzioni in lingua straniera, il film svedese The Square ha fatto parlare di sé tantissimo.

Ero molto curiosa di vedere questo lungometraggio, perché, nel tempo, avevo sentito pareri decisamente contrastanti, in merito.
La stampa internazionale l’ha definito una commedia divertentissima. In Italia, da quel che ho appreso, è stato accolto tiepidamente e mi è capitato di sentire pareri decisamente negativi a riguardo, con tanto di persone che hanno abbandonato la sala prima della fine della proiezione e di altre che hanno chiesto scusa agli amici che avevano invitato al cinema per l’occasione.
Personalmente, non mi spertico in superlativi, ma è certo che il film di Östlund mi ha fatto ridere, seppur a denti stretti. L’ironia che sottende il film è tipicamente nordeuropea, quasi impercettibile, eppure c’è, abbonda, ed è sottilmente diabolica.

Banalmente (nel soggetto, ma non negli intenti e, soprattutto, non nella resa), The Square mette in discussione e prende in giro la società contemporanea, usando la cornice del mondo dell’Arte e della Cultura, uno degli ambienti più élitari e meno democratici che esistano.
L’inaccessibilità cognitiva e interpretativa che caratterizza il patrimonio artistico non figurativo, o meglio… quello lontano dai canoni dell’interpretazione “tradizionale”, diventa il leitmotiv delle vicende tragicomiche del protagonista, il direttore di un grande museo di arte contemporanea.

The Square è un film che parla di apocalittici e integrati, così come ne trattava Eco nell’omonima pubblicazione del 1964. La Cultura è davvero per tutti? Quali aspetti della società di massa possono essere davvero considerati Cultura?
A cicli alterni, l’Arte viene proposta come strumento di inclusione, a prescindere dalla cultura (intesa in senso etnografico) e dal ceto di provenienza di chi ne fruisce.
Come tale, l’installazione luminosa che il museo intende proporre al pubblico e che dà il titolo al film richiama i principi di uguaglianza su cui l’Arte, in questo senso, dovrebbe basarsi. “Il quadrato [e, per estensione, l’Arte] è un santuario al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri”. Ma non è così (e, in realtà, la frase stessa lo sottintende, parlando di santuari, quindi di spazi sacri, riservati ai ministri di un culto e dei suoi adepti). Il mondo, di cui l’Arte è un’espressione, è composto da monadi che tendono all’esclusione (sociale, economica, culturale) di ciò che ritengono inadeguato, per ragioni più o meno consapevoli. Certo è che, pur laddove vi sia conclamato sviluppo (vedi, la civilissima Svezia), le disuguaglianze imperano, senza che, realmente, sia possibile opporvisi. Da cosa deriva questa impossibilità?

Christian, il protagonista del film (interpretato da un efficace Claes Bang), è un uomo di cultura (cioè, è acculturato e frequenta l’ambiente dell’Arte), ma sembra avere una particolare sensibilità, sembra un uomo onesto, attento alle necessità degli altri ed equanime. Ma la sua civiltà, come quella di chiunque si ritenga civile, in questa società, decade presto, nelle occasioni più banali. Östlund mette in scena varie situazioni: da quelle urbane, in cui chiunque incappa quotidianamente, per strada, a strambe occasioni di rappresentanza.
La scena del gorilla è la rappresentazione lampante che l’incomunicabilità dell’Arte (che si proietta anche nell’incapacità del protagonista di comunicare chiaramente con colleghi, donne, figlie) mette a disagio il pubblico, anche quello che si presume “eletto” (poiché partecipa a un certo evento culturale), a tal punto che il significato stesso della performance resta oscuro e pregiudica la distinzione fra realtà e finzione. Si tratta di un dubbio a cui neppure Christian sa opporsi, quando l’attore scimmiesco trascende il proprio ruolo. “Lo fermo? Non lo fermo? Ma questa è Arte! E se mi molla un pugno in faccia?”: immagino che i suoi pensieri (logicamente contrastanti) siano stati questi, più o meno.

Immagino Östlund che ridacchia, perché sa di far ridacchiare anche il pubblico delle proprie debolezze, in più occasioni, con scene che sono fondamentalmente buffe, ma che nascondono una critica sociale e un’angoscia notevoli.
In sostanza, credo che il messaggio del regista e sceneggiatore svedese si riassuma in un amichevole: “Tranqui, i tuoi piccoli, grandi atti di egoismo e di civile inciviltà sono comuni praticamente a tutti, anche agli Illuminati. Siamo una grande famiglia di egoisti, noi dis-umani”.
Significativamente, credo che questo concetto di disumanizzazione emerga anche dal modo in cui Östlund gira i suoi film. Circola la leggenda (confermata dal cast, in cui compaiono anche gli attori statunitensi Elisabeth Moss e Dominic West) che, per ogni scena, Östlund realizzi almeno 60 ciak (lui smentisce e parla di 30, al massimo).
La ripetizione estenuante della medesima sequenza non è volta a trovare (solo) una certa perfezione formale, quanto a spogliare gli interpreti della loro personalità e fargli assorbire, letteralmente, il ruolo. Un po’ quello che accade quando si ripete una parola tendenzialmente all’infinito, facendole perdere il suo significato, trasformandola in una serie di suoni e nulla più. Gli attori di Östlund, insomma, diventano veri e propri involucri, raffinati fantocci (e, qui, secondo me, sta il valore oggettivo del film, cioè nel suo equilibrio estetico, nella raffinatezza di certe scelte compositive e di fotografia). Dopotutto, anche il teatro delle marionette è considerata una forma d’Arte.

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