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The Hateful Eight / 20157.6695 voti

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Tarantino e il gioco delle identità

di
VOTO:
6

(Sei stelline e mezza)

Metto subito le cose in chiaro: per la prima volta dall’inizio della sua carriera, il buon Tarantino non è riuscito a divertirmi. Se c’è una cosa che chiedo al suo cinema è quella di sollazzarmi a briglia sciolta e, stavolta, non ce l’ha fatta. Il che non è un indizio preoccupante su una sua possibile fuoriuscita dalle mie grazie (ne hai fatte di troppo belle, Quentin, per deludermi senza appello), bensì una riflessione sul fatto che è proprio vero che non tutte le ciambelle riescono col buco e che… va beh, sarà per un’altra volta.

Peccato, però, perché The Hateful Eight è un compiaciuto e compiacente esercizio di stile, decisamente ben interpretato da facce che, da sole, valgono la visione del film (quelle di Samuel L. Jackson che sembra scolpita nell’ebano polito e di Kurt Russell coi favoriti chilometrici che sembra balzata fuori dalle pagine di un albo di Ken Parker, per me, vincono su tutte).
Sono convinta (e penso che questa sia davvero la parte più interessante di questo lavoro) che il film parli in maniera affatto edulcorata e, anzi, scevra da facili accomodamenti e dietrologie spicciole di questioni per cui occorrerebbe essere più avvezzi di quanto io non lo sia alla storiografia statunitense: i discorsi sul contrasto tra confederati e unionisti, su come sia stata affrontata la sconfitta degli uni da parte di entrambi, sulla questione razziale, sulla strumentalizzazione dello schiavismo e della liberazione da esso da parte delle due fazioni, sulla posizione degli schiavi liberati nell’economia dell’esercito nordista sono interessantissimi semi gettati con voluta nonchalance all’interno di un racconto che li sublima solo apparentemente e che, con fare quasi sornione, al contrario, si puntella saldamente su di essi.

La falsa lettera di Lincoln, in questo senso, è un elemento-chiave del racconto, fondamentale per comprenderne gli intenti narrativi ed analitici: alla luce dei conflitti sociali legati alle etnie ancora esistenti negli Stati Uniti (e non solo, ma qui la critica di Tarantino è mossa al contesto geografico e politico in cui egli vive), le (finte ma plausibili) parole di Abramo a Marquis Warren suonano quantomai belle ed ispiratrici ma irrealizzabili. Nulla si è imparato, negli anni, quasi per ragioni costitutive. Le mani insanguinate di Mannix che appallottolano il prezioso falso sono quantomai emblematiche: la storia democratica americana si fonda sul sangue, sul conflitto, sulla violenza più efferata.
Letto in questo senso, credo che questo sia il film più apertamente politico di Tarantino, sicuramente quello più realista, in cui l’eccesso pulp (oserei dire gore) è, paradossalmente, uno strumento estremamente funzionale alla rappresentazione (astratta) della sequela di eventi che hanno gettato le fondamenta per la costituzione della società statunitense contemporanea, che, ancora, non ha esaurito i suoi presupposti conflittuali.

In quest’ottica, ho trovato molto interessante anche il concetto di identità: chiunque, a quell’epoca e in simili situazioni, poteva spacciarsi per chicchessia con estrema facilità, poteva acquisire perfino l’identità di un defunto anche solo vestendone gli abiti (ce lo ricorda perfino Mannix, quando indossa il cappotto graduato del Generale Smithers). Un film come Il ritorno di Martin Guerre, per esempio, racconta di come fosse semplice sostituirsi (o forse no) a qualcun altro. In un’epoca in cui le impronte digitali non sono all’ordine del giorno, un uomo perde definitivamente la propria identità se lo si priva del volto. Quasi tutti i personaggi chiusi nell’emporio potrebbero non essere chi dicono di essere: come e quando l’eventuale menzogna sarà svelata? Gli Stati Uniti, in quest’ottica tarantiniana, si fondano su bugie: l’identità della nazione è estremamente incerta, perché costruita su quella fittizia di traditori, tagliagole e ladri pronti a reinventarsi all’uopo.

Detto ciò, purtroppo, il film mi è parso poco più di una variazione di “un invito a cena con delitto”, curioso perché ambientato in un contesto diverso da quello dei romanzi à la Agatha Christie, ma che, tolti i citati riferimenti etno-socio-storiografici, ben poco mi ha entusiasmata, soprattutto perché l’ho trovato povero di quell’ironia nera debordante tanto amata altrove.
La messinscena di un Cluedo in tre dimensioni, il senso di claustrofobia legato all’ambiente circoscritto (costruito e naturale), la convivenza forzata tra otto poco di buono: tutti questi elementi mi hanno incuriosita inizialmente, per poi lasciarmi abbastanza indifferente. Mi ha perfino stizzita l’uso pedissequo del flashback e, poveri noi, della voce narrante, completamente avulsa dal contesto. Davvero questo artificio didascalico è stato voluto da chi ha architettato qualcosa come le sequenze dedicate allo scambio delle borse in un film come Jackie Brown?
Stupore desolato a parte, nel complesso penso che questo sia il film di Tarantino più promettente, ma incerto, solidissimo negli intenti ed incompleto nello sviluppo, nonostante l’evidente chiusura del cerchio narrativo.

Nota: ad un certo punto, John Ruth, il personaggio interpretato da Kurt Russell viene definito “iena”. Sono curiosa di sapere se, nella versione originale, invece, non sia stato apostrofato come “snake (serpente)”. Le iene sono animali africani e asiatici: all’epoca, erano così conosciuti, altrove, tanto da essere usati come termine di paragone? Nel selvaggio West, forse, avrebbero usato termini come “coyote” o, per l’appunto, “serpente” (magari a sonagli). Se l’originale uso di “snake” mi fosse confermato da qualcuno, potrei essere certa dell’effettivo riferimento (anche nei dialoghi italiani) al personaggio interpretato dall’attore in 1997: Fuga da New York.

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