NientePopcorn

Cane di paglia / 19717.6125 voti

an image

La violenza secondo Peckinpah

di
VOTO:
9

Per il suo primo lungometraggio non-western, Peckinpah si trasferisce in Inghilterra (nella meravigliosa Cornovaglia), come se avesse avuto bisogno di cambiare aria per modificare il suo approccio fino a quel momento monolitico ai generi cinematografici.
Non cambia tuttavia il tema principale, quello fortemente peckinpahiano della violenza, che insieme al tema sessuale e a quello del loser, del protagonista-perdente, forma un trittico che racchiude in una sola pellicola tre degli argomenti principali del cinema della New Hollywood.
Già solo per questo aspetto Straw Dogs è di importanza fondamentale nella cinematografia anni Settanta e, ovviamente, in quella del regista californiano, all’interno della quale si colloca come film per certi versi anomalo ma per altri sostanzialmente in linea quantomeno con il carattere delle altre sue pellicole.
Il tema sessuale emerge fin dall’apertura, con l’insistenza della macchina da presa sui seni di una affascinante Susan George, nascosti da un maglioncino che lascia poco all’immaginazione. Altre scene indubbiamente audaci per l’epoca (tra cui quella della partita a scacchi) anticipano la potente sequenza dello stupro, di grosso impatto emotivo sullo spettatore anche per l’ambiguità con cui Amy gestisce, almeno inizialmente, ciò che le sta accadendo. In tale sequenza Peckinpah si sbizzarrisce con un montaggio frenetico e per certi versi fuori controllo: fotogrammi subliminali, lo stacco ripetuto su David che aspetta come un pollo in mezzo alla campagna. La parte dello stupro fu allora pesantemente censurata in alcuni Paesi, tra cui, ovviamente, l’Italia, facendo perdere al pubblico questo fondamentale ed originale esercizio di montaggio moderno.
Vi è poi, come detto, la caratterizzazione da loser di un Dustin Hoffman superlativo: il suo personaggio, il professor David Sumner, è l’emblema della viltà; un uomo che non riesce a far valere le sue ragioni, rinunciandovi in partenza. Emblematico il modo in cui tale personaggio viene presentato fin dalla prima sequenza, quella del bar: David entra, si soffia il naso impacciato (e qui sarebbe curiosa una ricerca su quanti attori protagonisti si erano soffiati il naso in un film hollywoodiano classico), discute con un burbero avventore con il quale smentisce subito l’affermazione che aveva fatto poco prima (il fatto che l’uomo che gli stava aggiustando l’autorimessa stesse facendo un brutto lavoro). È un uomo apparentemente senza dignità, ma che dimostra, con alcuni scatti di stizza (quelli con il gatto), di avere un comportamento almeno potenzialmente violento, sebbene represso.
Con ciò Peckinpah vuole affermare la sua teoria secondo cui nessuno si può dire completamente estraneo alla violenza. Tutti coltivano una violenza quanto meno latente. Non esiste alcun cane di paglia, esiste un limite che a un certo punto può essere superato, scatenando le più profonde bassezze e i più repressi istinti di cui l’uomo è innatamente capace.
La violenza, dunque, tema fondamentale, in generale, nella cinematografia di Peckinpah, ma che in Cane di paglia trova una sorta di teorizzazione.
Quella violenza che fino a cinque anni prima era decisamente un tabù a Hollywood e che era stata sdoganata in modo prepotente al grande pubblico dal Bonnie & Clyde (Gangster Story) di Arthur Penn (1967). Il codice di autocensura dei produttori americani (codice Hays) era stato accantonato soltanto un anno prima (1966) ed ecco esplodere quelle scene di violenza che invece nei film di altri Paesi (ad esempio negli spaghetti western di Sergio Leone) erano già patrimonio consolidato.
Significativa, in tal senso, la battuta che gli sceneggiatori mettono in bocca al protagonista, che risponde ad uno degli abitanti del posto che gli sta chiedendo conto degli scontri avvenuti in America e di cui è giunta notizia oltreoceano:

Ha visto scene di violenza?
Solo nei film europei.

È quanto meno curioso che i due film che in assoluto affrontano in modo più controverso il tema della violenza siano entrambi del 1971 e girati in Inghilterra da registi americani (oltre a Cane di paglia, il riferimento va, ovviamente, all’Arancia Meccanica di Kubrick).
L’unico punto della pellicola che lascia perplessi è quel breve dialogo tra David e il reverendo del villaggio, in cui, con poche battute che paiono frettolosamente abbozzate (sebbene apparentemente forti), si cerca di introdurre anche il tema religioso, in modo tuttavia inutile e, in ogni caso, con risultato insoddisfacente. Ma è davvero l’unico neo di un film assolutamente memorabile e ancora oggi molto attuale, per stile e contenuti.

Questa recensione ha 6 commenti

Exit mobile version