Cane di paglia

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Cane di paglia

Da un romanzo di Gordon Williams. David Sumner, americano, è un uomo mite e tranquillo. Dopo aver vinto una borsa di studio, insieme alla moglie Amy si trasferisce in un piccolo villaggio inglese: qui, l'uomo diviene ben presto bersaglio delle cattiverie dei prepotenti locali, mentre la moglie sembra cedere alle lusinghe di alcuni corteggiatori.
Stefania ha scritto questa trama

Titolo Originale: Straw Dogs
Attori principali: Dustin Hoffman, Susan George, Peter Vaughan, T. P. McKenna, Del Henney, Jim Norton, Donald Webster, Ken Hutchison, Len Jones, Sally Thomsett, Robert Keegan, Peter Arne, Cherina Schaer, Colin Welland, June Brown, Jimmy Charters, Chloe Franks, Michael Mundell, David Warner, Mostra tutti

Regia: Sam Peckinpah
Sceneggiatura/Autore: Sam Peckinpah, David Zelag Goodman
Colonna sonora: Jerry Fielding
Fotografia: John Coquillon
Produttore: Daniel Melnick
Produzione: Gran Bretagna, Usa
Genere: Drammatico, Thriller
Durata: 116 minuti

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Il limite della sopportazione umana. / 15 Luglio 2022 in Cane di paglia

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Un tranquillo e timido professore americano di matematica si trasferisce insieme alla moglie nel paesino d’origine di lei situato in Cornovaglia.
Qui viene subito preso di mira da alcuni bulli del luogo ai quali evita di reagire fino al giorno in cui non prendono possesso della sua abitazione e dei suoi affetti piu’ cari.
A quanto puo’ arrivare la sopportazione umana? C’e’ un limite oltre il quale non si puo’ piu’ andare?
Sono gli interrogativi ai quali Sam Peckinpah risponde con questa cruda pellicola, un home invasion ante litteram( credo il primo insieme ad Arancia Meccanica) che mette in mostra in tutta la sua ferocia un’apologia sulla violenza e sulla giustizia fai da se’, un film come ho scritto sopra brutale ma anche lento e tedioso in alcuni punti ma che sconvolge come nel caso della terribile scena dello stupro e nel suo sanguinoso finale.
Un film che mostra come anche il piu’ tranquillo e pacifico uomo esistente sulla faccia della Terra si trasformi in una belva sanguinaria per difendere se stesso e le persone che ama.
Grandissimo Dustin Hoffman.

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Scemo e più scemo / 15 Maggio 2020 in Cane di paglia

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Dustin Hoffman è un matematico scemo che ha una moglie bionda e scema che lo odia perché ogni tanto lavora e scrive formule invece di starla a guardare tutto il giorno e, in poche parole, lei vorrebbe tanto che lui fosse un’altra persona. Si trasferiscono nella città natale di lei, un paesino di stronzi arroganti e superficiali che prendono in giro Dustin perché troppo diverso da quello a cui sono abituati.
Loro gli fanno i dispetti e la moglie gli cancella le equazioni dalla lavagna perché si annoia e non sopporta che lui non si ribelli ai dispetti dei campagnoli. Lei sicuramente esagera, ma non le possiamo dare tutti i torti perché Dustin è di una tale ingenuità che le equazioni forse gliele cancelleresti pure tu. Visto che i campagnoli si accorgono di avere carta bianca, le provocazioni crescono in violenza fino a sfociare nello stupro della moglie, mentre Dustin è seduto in un campo perché gli avevano detto di stare fermo in un campo ad aspettarli e lui così ha fatto. Lei non gli dice della violenza subita e lui non se ne accorge, perché troppo innervosito per non aver capito che quello del campo era uno scherzo. Non era difficilissimo, Dustin.
A questo punto, in un moto di autoaffermazione decide di far valere i suoi valori morali proteggendo lo scemo del villaggio che tutti hanno falsamente accusato di molestie. Lo porta a casa sua (perché l’aveva investito per sbaglio, mica per altro) e decide che a costo di morire non lascerà che nessuno gli faccia del male. Gli altri non sono tanto d’accordo e cercano di sfondargli la porta, ma sono troppo ubriachi per concepire un piano funzionale, quindi si limitano a rompere tutto quello che c’è intorno alla casa. La moglie si altera non poco, un po’ perché dice Dustin, non ho capito che ce ne frega a noi dello scemo del villaggio, se permetti io non voglio morire, e un po’ perché ha raggiunto un livello di saturazione emotiva bello alto quindi sta rincogli*nita più che mai. Insomma, cerca di farli entrare anche se loro hanno tanti fucili e tanta voglia di usarli, ma Dustin ormai è in modalità full psycho da battaglia, la manda via perché lui ha tutto sotto controllo ed è sicuro che riuscirà a respingerli. Sorpresa, non ci riesce. Loro entrano e non c’è altro da fare se non farli fuori tutti. Dustin è contento di essersi fatto finalmente valere e scorta con gioia il suo protetto verso la salvezza.

Che abbiamo imparato? Che lasciare le persone nei campi innesca la natura intrinsecamente violenta dell’uomo e che magari prima di sposare qualcuno sarebbe meglio farci quattro chiacchiere.

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Il richiamo della foresta / 20 Giugno 2016 in Cane di paglia

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Sette stelline e mezza e riflessioni sparse)

Peckinpah si sposta dagli Stati Uniti in Cornovaglia e imbastisce un saggio antropologico travestito da western a sua volta camuffato da thriller ultra-violento (nello stesso anno in cui Kubrick, altro americano in trasferta, realizza Arancia meccanica. Non sembra casuale lo scambio di battute: “Si vede tanta violenza in America?”, “Solo nei film europei”).
In Cane di paglia, c’è tutto l’universo del cineasta statunitense: sesso, violenza e antieroi sono i tre puntelli su cui si regge una vicenda specifica, ma universale, che tratta dell’istinto di sopravvivenza insito in ogni animale, estendendosi al concetto di affermazione del maschio alfa dominante.

Se dal contesto eliminassimo le connotazioni umane, infatti, resterebbe un documentario incentrato su un esperimento: l’inserimento di un animale tendenzialmente pacifico (David, interpretato in maniera ineccepibile da Dustin Hoffman, potrebbe corrispondere ad un quieto cane/gatto “di casa”, giocoso e sereno) nel territorio presidiato da un branco di randagi: il cane di paglia, l’animale-fantoccio a cui le leggi della Natura sono praticamente estranee perché, finora, non ne ha mai avuto esperienza diretta, si scontra con un gruppo di simili fisicamente prevaricanti che gli rimproverano l’intromissione nel proprio spazio e la conquista senza lotta della preda/della femmina.

Proprio sulla figura femminile presente in questo film si è accanita la critica dell’epoca, tacciando di misoginia il ritratto della sensuale Amy (Susan George): Peckinpah, in realtà, si limita a rappresentare la moglie di David come oggetto del desiderio (atavico) del branco, in una pura visione etologica della questione. Amy è, non a caso, una gatta (anche il suo “spasimante”, Charlie, la definisce così, prima di aggredirla in salotto), non solo in termini narrativi, ma soprattutto zoologici. Amy è irrequieta, perché sta valutando il proprio compagno alla luce di una situazione inedita: Amy, in quanto etologicamente femmina, ha il diritto di soppesare la qualità dei maschi che la circondano. Purtroppo, in questa visione animale(-sca) della questione, i soggetti maschili la considerano esclusivamente alla stregua di uno strumento attraverso cui soddisfare il proprio piacere in maniera brutale.
Lo stupro ad opera di due maschi del gruppo, tentato anche in una seconda occasione, è la messinscena di un accoppiamento violento che si verifica normalmente in Natura, esecrabile e disturbante poiché visto in un’ottica umana e civile.

La ribellione di David ai soprusi corrisponde al risveglio del suo istinto primordiale, al messaggio degli avi contenuto nel suo DNA: assediato come un pioniere nel suo fortino, il mite matematico usa cervello e predisposizione naturale per confrontarsi con chi invade quello che, finalmente, identifica come il suo territorio.
Per necessità, David ha sviluppato il senso del possesso, ha trovato un’identità e intende affermarla definitivamente (“Questa è casa mia”) con gli stessi mezzi sfruttati dai suoi antagonisti (arriva a minacciare la moglie, quando Amy, isterica, è disposta a far entrare nella villetta gli aggressori: “Stai qui, o ti spezzo un braccio”).
Letteralmente, David risponde al richiamo della foresta raccontato da Jack London: come il cane Buck del romanzo londoniano, il protagonista del film di Peckinpah si spoglia delle inibizioni della civiltà e ritrova la via dei suoi antenati selvaggi. Non sa quale sarà il suo destino (“Non so qual è la via giusta”, “Non fa niente: neanch’io”), ma è certo di essere cambiato e cresciuto.
Non è un caso che, nella scena conclusiva del film, manchi Amy: David ha affermato la sua superiorità, annichilendo nemici e compagna, da cui ha ottenuto ciò di cui il maschio alfa necessita (ammirazione, obbedienza) e a cui, apparentemente, non chiede più niente, forse neppure la fedeltà.

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La violenza secondo Peckinpah / 8 Aprile 2016 in Cane di paglia

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Per il suo primo lungometraggio non-western, Peckinpah si trasferisce in Inghilterra (nella meravigliosa Cornovaglia), come se avesse avuto bisogno di cambiare aria per modificare il suo approccio fino a quel momento monolitico ai generi cinematografici.
Non cambia tuttavia il tema principale, quello fortemente peckinpahiano della violenza, che insieme al tema sessuale e a quello del loser, del protagonista-perdente, forma un trittico che racchiude in una sola pellicola tre degli argomenti principali del cinema della New Hollywood.
Già solo per questo aspetto Straw Dogs è di importanza fondamentale nella cinematografia anni Settanta e, ovviamente, in quella del regista californiano, all’interno della quale si colloca come film per certi versi anomalo ma per altri sostanzialmente in linea quantomeno con il carattere delle altre sue pellicole.
Il tema sessuale emerge fin dall’apertura, con l’insistenza della macchina da presa sui seni di una affascinante Susan George, nascosti da un maglioncino che lascia poco all’immaginazione. Altre scene indubbiamente audaci per l’epoca (tra cui quella della partita a scacchi) anticipano la potente sequenza dello stupro, di grosso impatto emotivo sullo spettatore anche per l’ambiguità con cui Amy gestisce, almeno inizialmente, ciò che le sta accadendo. In tale sequenza Peckinpah si sbizzarrisce con un montaggio frenetico e per certi versi fuori controllo: fotogrammi subliminali, lo stacco ripetuto su David che aspetta come un pollo in mezzo alla campagna. La parte dello stupro fu allora pesantemente censurata in alcuni Paesi, tra cui, ovviamente, l’Italia, facendo perdere al pubblico questo fondamentale ed originale esercizio di montaggio moderno.
Vi è poi, come detto, la caratterizzazione da loser di un Dustin Hoffman superlativo: il suo personaggio, il professor David Sumner, è l’emblema della viltà; un uomo che non riesce a far valere le sue ragioni, rinunciandovi in partenza. Emblematico il modo in cui tale personaggio viene presentato fin dalla prima sequenza, quella del bar: David entra, si soffia il naso impacciato (e qui sarebbe curiosa una ricerca su quanti attori protagonisti si erano soffiati il naso in un film hollywoodiano classico), discute con un burbero avventore con il quale smentisce subito l’affermazione che aveva fatto poco prima (il fatto che l’uomo che gli stava aggiustando l’autorimessa stesse facendo un brutto lavoro). È un uomo apparentemente senza dignità, ma che dimostra, con alcuni scatti di stizza (quelli con il gatto), di avere un comportamento almeno potenzialmente violento, sebbene represso.
Con ciò Peckinpah vuole affermare la sua teoria secondo cui nessuno si può dire completamente estraneo alla violenza. Tutti coltivano una violenza quanto meno latente. Non esiste alcun cane di paglia, esiste un limite che a un certo punto può essere superato, scatenando le più profonde bassezze e i più repressi istinti di cui l’uomo è innatamente capace.
La violenza, dunque, tema fondamentale, in generale, nella cinematografia di Peckinpah, ma che in Cane di paglia trova una sorta di teorizzazione.
Quella violenza che fino a cinque anni prima era decisamente un tabù a Hollywood e che era stata sdoganata in modo prepotente al grande pubblico dal Bonnie & Clyde (Gangster Story) di Arthur Penn (1967). Il codice di autocensura dei produttori americani (codice Hays) era stato accantonato soltanto un anno prima (1966) ed ecco esplodere quelle scene di violenza che invece nei film di altri Paesi (ad esempio negli spaghetti western di Sergio Leone) erano già patrimonio consolidato.
Significativa, in tal senso, la battuta che gli sceneggiatori mettono in bocca al protagonista, che risponde ad uno degli abitanti del posto che gli sta chiedendo conto degli scontri avvenuti in America e di cui è giunta notizia oltreoceano:

Ha visto scene di violenza?
Solo nei film europei.

È quanto meno curioso che i due film che in assoluto affrontano in modo più controverso il tema della violenza siano entrambi del 1971 e girati in Inghilterra da registi americani (oltre a Cane di paglia, il riferimento va, ovviamente, all’Arancia Meccanica di Kubrick).
L’unico punto della pellicola che lascia perplessi è quel breve dialogo tra David e il reverendo del villaggio, in cui, con poche battute che paiono frettolosamente abbozzate (sebbene apparentemente forti), si cerca di introdurre anche il tema religioso, in modo tuttavia inutile e, in ogni caso, con risultato insoddisfacente. Ma è davvero l’unico neo di un film assolutamente memorabile e ancora oggi molto attuale, per stile e contenuti.

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29 Gennaio 2012 in Cane di paglia

Film dal montaggio serrato, duro, violento, a dir poco inquietante. Il “piccolo grande uomo” Hoffman non è mai stato così incazzato