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Melancholia / 20117.1600 voti

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Fino alla fine del mondo

di
VOTO:
7

A modesto parere di chi scrive, Lars von Trier è il regista più ambizioso, arrogante, sopravvalutato, presuntuoso e antipatico della Storia del Cinema. Per alcuni è un maestro che realizza una meraviglia dietro l’altra, per altri uno sbruffone che invece di sedere dietro la macchina da presa sarebbe meglio se cambiasse mestiere. Come spesso succede in questi casi, la verità, probabilmente, sta nel mezzo: Trier non è un genio, ma non è neppure un incapace. E’ un abile e astuto provocatore che, nel bene e nel male, riesce sempre a far parlare di sé e a far credere a molti di essere più bravo di quanto non sia in realtà.
Uno dei suoi difetti più grandi è quello di dire stupidaggini ogni volta che apre bocca, come quando, tra lo sconcerto dei presenti, durante la conferenza stampa di presentazione di “Melancholia” al Festival di Cannes 2011 rilasciò imbarazzanti e deliranti dichiarazioni antisemite che, giustamente, causarono la sua espulsione dalla manifestazione cannense. A noi, comunque, interessa il Trier regista, ossia quello che gira i film, belli o brutti che siano, non quello che spara caz**te a destra e a sinistra. “Melancholia” è un film diviso in due parti, la prima dedicata a Justine, la seconda a Claire, ovvero le protagoniste dell’opera in questione, che affronta temi impegnativi come la depressione e la fine del mondo. Justine è una ragazza che ha tutto quello che occorre per essere felice: è bella, ha un buon lavoro (da copywriter viene promossa dal suo capo ad art director) e si è appena sposata con un uomo, Michael, che l’ama alla follia.
Ella, però, è afflitta da un disagio psichico che si acuisce in maniera esponenziale proprio nel giorno del suo matrimonio, e il fastoso ricevimento nuziale è inevitabilmente rovinato. Suo marito vorrebbe fare l’amore con lei, ma Justine lo respinge preferendo concedersi a un suo giovane collega che la segue ovunque lei vada. La festa finisce mestamente, e tutti se ne vanno a casa infelici e scontenti, compreso Michael, che da quel momento sparisce dal film per non vedersi mai più (a proposito: ma che fine fa?). Justine sta così male da non riuscire neanche a prendere un taxi da sola, e sua sorella, Claire, che insieme al suo consorte, John, si era fatta in quattro per organizzare il banchetto di nozze, decide di ospitarla nella sua lussuosa casa di campagna per prendersi cura di lei.
Comincia così la seconda parte del film, quella in cui il racconto si focalizza maggiormente su Claire e sull’imminente fine del mondo. C’è, infatti, un misterioso corpo celeste, Melancholia, che si sta avvicinando pericolosamente alla Terra. Se i due pianeti dovessero entrare in collisione, non ci sarà scampo per nessuno. John afferma che non c’è alcun pericolo di impatto, perciò dice ai suoi familiari di stare tranquilli, ma in realtà il primo ad aver paura che Melancholia possa schiantarsi contro la Terra è proprio lui, che quando capisce che ormai non c’è più nulla che si possa fare per evitare la catastrofe si uccide lasciando che la moglie, il figlio, Leo, e Justine affrontino impotenti la sciagura che spazzerà via tutto. Come detto all’inizio, Trier è un regista ambizioso ma dato che non è un genio come Béla Tarr o Terrence Malick non possiede gli strumenti adatti per sobbarcarsi l’ardua impresa di trattare nello stesso film questioni gravose come la depressione e la fine del mondo.
E da una sceneggiatura scritta dallo stesso Trier, infatti, è nato un film squilibrato ma non privo di interesse. Dopo un prologo suggestivo e ipnotico, che in pochi minuti, sulle note del “Tristano e Isotta” di Richard Wagner, riassume quello che ci verrà narrato in seguito (i detrattori del regista de “Le onde del destino” potrebbero dire che non era necessario allungare il brodo fino a superare le due ore), assistiamo a una prima parte abbastanza noiosa caratterizzata da dialoghi scontati e da scene prolisse e superflue, che sarebbe stato meglio tagliare in sede di montaggio, come quella in cui i due sposi, dopo essere convolati a nozze, rimangono bloccati con la limousine su cui viaggiano a causa dell’incapacità dell’autista di condurre il mezzo di trasporto.
Il ritmo sonnolento rischia di far cadere lo spettatore tra le braccia di Morfeo, ma incredibilmente, quando ormai si è quasi rassegnati a dover sorbire un’opera soporifera, nella seconda parte le banalità spariscono e la pellicola diventa intrigante. Trier si concentra su pochi personaggi (John, Claire, Leo e Justine) e riesce a creare un’atmosfera cupa e opprimente che turba e inquieta lo spettatore.
Sul film aleggia l’ombra lunga di Andrej Tarkovskij: i richiami alle opere del maestro russo sono evidenti, a cominciare da “Sacrificio”, di cui “Melancholia”, pur essendo qualitativamente inferiore, condivide il tono apocalittico e la cadenza esistenziale e meditativa, e ci sono anche citazioni pittoriche, come quella de “I cacciatori nella neve” di Pieter Bruegel, che Tarkovskij aveva citato in “Solaris” e “Andrej Rublëv”, che fanno tanto cinema d’autore e che sicuramente manderanno in visibilio gli ammiratori del regista danese.
Nonostante l’evidente squilibrio tra la prima e la seconda parte, il film, bisogna ammetterlo, non lascia indifferenti. I pregi, seppur di poco, superano i difetti. Per quanto riguarda il cast, tra l’affascinante Kirsten Dunst (Justine) e la brava Charlotte Gainsbourg (Claire) convince di più la seconda, mentre Kiefer Sutherland (John) è il solito pesce lesso. Alcuni, esagerando, hanno affermato che “Melancholia” è qualcosa di unico e incredibile; ma è probabile che costoro non abbiano mai visto “Il cavallo di Torino” di Béla Tarr, che, vedere per credere, mette in scena l’Apocalisse con una radicalità visionaria che Lars von Trier nemmeno si sogna.

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