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Manchester by the Sea / 20167.4318 voti

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Drammatica normalità

di
VOTO:
7

Sulla carta, la storia raccontata da Kenneth Lonergan in Manchester By The Sea appare scarsamente originale, ma è proprio la drammatica normalità che la caratterizza a rappresentare il suo grande punto di forza. Per qualche verso, mi ha ricordato i romanzi di Elizabeth Strout che ho apprezzato di più, Olive Kitteridge, soprattutto, e Mi chiamo Lucy Barton.

Il pregio di Lonergan, sceneggiatore e regista del film candidato in entrambe le categorie agli Oscar 2017, è quello di mettere in scena devastanti dolori personali in maniera sì empatica, ma priva di superomistiche caratterizzazioni di personaggi e situazioni.
Saltellando tra presente e passato, il pubblico apprende la triste storia di Lee Chandler (un buon Casey Affleck) e della sua famiglia, una serie di vicende che, con le dovute realistiche proporzioni, hanno occasione di accadere in tutto il mondo.
Ci sono divorzi, malattie, dipartite, vigliaccherie e sensi di colpa: i vari personaggi affrontano dolori e problemi come molti di noi farebbero, senza facili eroismi narrativi, compiendo errori su errori, tentando di sopravvivere a sé stessi, con improvvisi e non ponderati guizzi di (auto) ironia.

Una delle poche occasioni in cui mi pare che Lonergan abbia perso il senso della misura, mostrando come sia semplice scivolare nel patetismo più sfrenato, è la scena in cui la moglie di Lee (Michelle Williams, praticamente condannata a interpretare sempre lo stesso ruolo, quello della giovane donna presa a frustate dalla vita) viene trasferita su un’ambulanza: minuti interminabili, senza un preciso costrutto, dedicati a mostrare una donna che singhiozza e un uomo che non sa dove guardare, nella migliore tradizione del “fazzoletto alla mano”.
Per fortuna, il resto del film è gestito con più polso e, con disarmante semplicità, Lonergan riesce a far fare al suo protagonista scelte difficili, talvolta impopolari ma condivisibili, perché dettate da un lucido senso pratico, e ammissioni difficili benché lineari: “Non ce la faccio”, confessa a mezza voce Lee, in almeno due occasioni, perché a molto si può resistere, ma non alla morte nel cuore.

Bello l’uso delle musiche di Lesley Barber e non (Handel, in primis), “sparate” spesso ad alto volume e capaci, quasi per contrasto, di diventare parte attiva della narrazione.

Questa recensione ha 11 commenti

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