NientePopcorn

Lei / 20137.7934 voti

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Amore 2.0

di
VOTO:
8

Bella, davvero bella, messinscena di Spike Jonze che, giocando coi registri (comico, sentimentale, drammatico, surreale), ha messo in piedi una storia il cui senso del paradosso si stempera strada facendo, assumendo toni comprensibili, plausibili perfino, indagando in maniera originale (perdonate l’aggettivo decisamente abusato) tutte le dinamiche tipiche delle relazioni amorose: scoperta, interesse, paura, ecc.

In Her, Jonze usa la cornice sci-fi in maniera affatto scontata, rendendo i dettagli futuribili immediatamente familiari, tratteggiando descrizioni di modus vivendi e di comportamenti umani in maniera da renderli subito riconoscibili alla platea.
Nelle scene ambientate all’interno della metro, per esempio, nessuna persona interagisce con le altre, perché troppo impegnata con i propri dispositivi elettronici e, diciamocelo, non è forse già così?
Nonostante la tipicità di alcune situazioni, quindi, è facile intuire da subito che la collocazione temporale della storia è in un futuro prossimo (ed è fondamentale, a questo proposito, la scelta di collocare i set urbani in una metropoli orientale come Shanghai e a Los Angeles: Blade Runner, distopie a parte, docet): qui, ad una evidente quanto in-credibile ed utopica tranquillità sociale (un certo benessere sembra sottendere la vita dei personaggi, perfino delle comparse, e mai si vede in scena un tutore della legge o si verificano episodi di qualsivoglia grado di violenza), forse sostenuta da una tecnologia che si è imposta a livello egualitario e livellante in tutta la società metropolitana, si alternano dettagli d’ambiente di gusto tipicamente retrofuturibile, elegantemente geek.

Gli arredi, le texture dei materiali, il taglio dei vestiti, i cromatismi dei tessuti e dei rivestimenti e, soprattutto, la grafica digitale che caratterizza i software ed i sistemi operativi usati nel film appartengono ad un preciso target socioculturale, esteticamente intrigante, gradevole agli occhi e sensibilmente innocuo.
Tale, apparentemente, è anche il protagonista, Theodore (un ottimo, come sempre, mi viene da dire, Joaquin Phoenix), contemporaneamente a suo agio ed avulso da un contesto che pare sublimare i sentimenti entro una cornice di pacatezza e comprensione, di accettazione generale, di precisione e di solidità. Non è un caso, a mio parere, che gli edifici di acciaio e vetro, solidi e geometrici e particolarmente ordinati (la vista aerea notturna di L.A. mostra un reticolo urbano apparentemente razionale), accolgano corpi imperfetti e “teneri”, avvolti in abiti morbidi e pratici. Lo spazio costruito riflette l’ordine sociale. L’ordine sociale così costituito assicura totale sicurezza.
Alcuno pare seriamente arrabbiarsi, i dissensi di coppia esplodono esclusivamente all’apice dell’insopportazione reciproca e, nonostante tutto, i rapporti civili vengono comunque mantenuti con calma quasi serafica.
Per quanto buffo e curioso sia l’atteggiamento schivo e un po’ impacciato di Theodore, un suo collega, espansivo e gioioso, non esita a dimostrargli ammirazione e comprensione, anche quando la sua situazione personale sembra rasentare il nonsense (vedi, la gita a quattro con picnic).

Nonostante l’attenzione per i dettagli formali, Her non è solo un esercizio estetico (in cui ho ravvisato piacevoli echi della bella serie tv Black Mirror), ma è un’ottima macchina narrativa che stupisce, seppur senza eclatanti sussulti, per la fluidità con cui tratta la materia del racconto.

Nota negativa su cui non sono riuscita davvero a soprassedere: nella versione italiana, la voce della Ramazzotti è un vero pugno nelle orecchie. Apprezzo questa attrice, ma affidarle questo doppiaggio è stato un passo falso: purtroppo, la cadenza del suo accento è troppo caratteristica e, inoltre, in diverse occasioni, è tanto fuori posto che diverse battute suonano piatte come se stesse leggendo gli ingredienti della Nutella su un’etichetta.

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