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Tre manifesti a Ebbing, Missouri / 20177.7459 voti

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Western contemporaneo

di
VOTO:
9

Il terzo lungometraggio di McDonagh si muove principalmente su tre livelli ben distinti. Il primo è quello familiare dato dai vari drammi privati dei personaggi, tra cui spicca ovviamente quello della protagonista, una madre sola che deve affrontare la perdita della figlia e gestire i rapporti con il figlio e l’ex-marito. Il secondo è invece quello sociale, rappresentato dai rapporti all’interno della piccola cittadina-mondo di Ebbing. È proprio in questo livello che assume grande rilevanza la componente Western, evocata dalle musiche di Carter Burwell e da alcune situazioni narrative tipiche, come la contrapposizione bandito-sceriffo (nemici-amici) o la figura “negativa” del vice sceriffo. Ora, se c’è una cosa che ci ha insegnato Tarantino è che, utilizzare in maniera più o meno evidente i topoi del Western, significa necessariamente parlare della società americana contemporanea, mettendo in risalto alcune problematiche e contraddizioni interne ad essa. Questo perché il Western è il genere americano per eccellenza. In questo senso è fondamentale il personaggio di Rockwell, che incarna in maniera non troppo retorica una certa tendenza razzista difficile da eliminare negli Stati Uniti. L’ultimo livello, infine, è quello più generico-esistenziale, ovvero quello in cui McDonagh riflette sulla giustizia, sulla violenza e sulla proliferazione di quest’ultima, ma anche sulla condizione umana in generale, inquadrata in ottica profondamente negativa. Tutti i personaggi della vicenda infatti possono essere definiti “perdenti” nei confronti della vita, per un motivo o per l’altro, e questo amplifica la loro umanità agli occhi dello spettatore, facendogli riconsiderare necessariamente anche la distinzione tra buoni e cattivi e tra bene e male.
La cosa curiosa è che con qualche volo pindarico si può azzardare una sorta di connessione tra questi tre livelli narrativo-tematici e i tre manifesti del titolo. Il primo cartellone infatti presenta la scritta “Stuprata mentre stava morendo” e fa riferimento all’avvenimento che ha posto fine al nucleo familiare della protagonista (livello familiare). Non a caso proprio questo cartellone sarà la causa di una piccola lite tra il personaggio della McDormand e il figlio, una lite interna insomma. Il secondo cartellone si rivolge direttamente alla polizia e quindi segna un’apertura verso la sfera sociale, mentre l’ultimo pur riferendosi direttamente allo sceriffo sembra porsi una domanda di carattere più ampio. Quel “Perché?” è la domanda che assilla la protagonista fin dall’inizio ed è indicativo della sua perdita di fede, che la porta a mettere in discussione il concetto di giustizia in generale, non solo in termini sociali. Ma tutto questo ovviamente è uno svarione mio.
Nonostante il clima prevalentemente negativo, McDonagh sembra lasciare un piccolo barlume di speranza in alcuni punti in cui la concatenazione di episodi violenti si interrompe, come nella sequenza del succo d’arancia in ospedale o quella in cui il personaggio della McDormand “perdona” il marito.
In particolare il finale, solo apparentemente aperto, sembra dare speranza. I due vendicatori sono sì in viaggio verso l’ennesimo atto di violenza, ma entrambi hanno manifestato segni di cambiamento e non sembrano realmente determinati ad andare fino in fondo.
Un plauso infine alla performance della McDormand, che lavora spesso sulla sottrazione (capito Maryl?) e dà vita ad un personaggio memorabile.

Questa recensione ha 3 commenti

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