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L'uomo invisibile / 20206.393 voti

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Metafora sugli abusi domestici riuscita a metà

di
VOTO:
5

Film horror non particolarmente originale nella messinscena che prende spunto dall’omonimo romanzo di H.G. Wells. Nonostante che non rinnovi in maniera peculiare il genere cinematografico, riesce a mettere in scena senza troppi stereotipi o facili pietismi il dramma atroce della violenza sulle donne in ambito domestico.

Il pregio maggiore del film Blumhouse L’uomo invisibile scritto e diretto da Leigh Whannell (già soggettista e sceneggiatore del primo Saw), infatti, sta nella capacità di materializzare sullo schermo e in forma quasi metaforica molti dei meccanismi perversi tipici dell’abuso domestico.
In particolare, quella che -appunto- ho inteso come una metafora raggiunge l’efficace apice quando la donna vittima di violenza afferma che il marito la sta perseguitando e minacciando, anche se l’uomo è stato dichiarato morto. Nessuno sembra disposto a crederle. Gli stalker agiscono spesso nell’ombra, come uomini invisibili (appunto), in maniera imprevedibile, per disorientare le proprie vittime e renderle poco credibili agli occhi di terzi.

La protagonista, Cecilia (Elisabeth Moss), è una donna che, progressivamente, nel corso del matrimonio, ha perso ogni forma di indipendenza, a causa dell’oppressione del marito Adrian (Oliver Jackson-Cohen) che la considera una sua proprietà materiale. A causa di Adrian, Cecilia non lavora più (era un architetto), non è più indipendente dal punto di vista materiale ed economico, non cura il proprio aspetto esteriore. Adrian la considera incapace di fare qualsiasi cosa e, per questo, la rimprovera e picchia costantemente. Cecilia è costretta ad avere rapporti sessuali con un compagno che la repulsa e che vuole da lei un figlio (per legarla ulteriormente a sé/ricattarla).
Il ricco marito si fregia anche del merito di saper leggere i suoi pensieri, intuendo i propositi di ribellione della donna. L’uomo non sopporta l’idea che lei sia disposta a lasciarlo.
Il campionario di bestialità è decisamente assortito.

Nel film, l’angoscia e il terrore provati da Cecilia subito dopo la fuga e quando intuisce la (assurda) presenza del marito nella sua nuova vita sono quasi palpabili.
E, infatti, è nella prima parte del lungometraggio che si concentrano le soluzioni narrative e visive migliori (ci sono diversi momenti in cui la macchina da presa asseconda chiaramente il punto di vista dell’intruso e, dato che, per il resto, non mi pare di aver notato altri guizzi degni di nota, mi sarebbe piaciuto vedere l’intero film concepito in questa maniera! A latere, a proposito di elementi tecnici e formali, mi è sembrata molto interessante la ricca colonna sonora strumentale di Benjamin Wallfisch che ricorda quelle dei vecchi noir).

Svelato l’escamotage con cui Adrian riesce ancora a essere negativamente presente nella vita di Cecilia, secondo me, il film perde ogni slancio e peculiarità, per diventare un più convenzionale “film di sopravvivenza”.

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