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The Boys in the Band / 20206.618 voti

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Datato dramma da camera

di
VOTO:
5

Nel 1968, la pièce teatrale The Boys in the Band di Mart Crowley (1935-2020) segnò la storia della cultura omosessuale newyorkese: prima di allora, il tema dell’omosessualità maschile non era mai stato affrontato in maniera così esplicita. In particolare, l’opera di Crowley mostrava apertamente come essere omosessuale negli USA, in quel periodo e nella pur cosmopolita e avanguardista New York, corrispondesse a una ghettizzazione: gli omosessuali venivano arrestati in virtù delle loro abitudini sociali e sessuali, erano soggetti a continui controlli del reparto buoncostume della polizia e, in sostanza, erano costretti non solo alla dissimulazione ma anche alla solitudine.

Non che, nel 2020, le cose siano cambiate davvero molto, nonostante le molte conquiste civili fatte nel frattempo, le continue campagne di sensibilizzazione e un apparente sdoganamento dell’argomento, perché il problema dei pregiudizi nei confronti delle persone gay permane e, purtroppo, ne abbiamo notizia ogni giorno.

Quindi, l’adattamento per la tv di The Boys in the Band, prodotto da Netflix con il cast artistico che ha riportato l’opera a Broadway nel 2018, meritandosi un Tony Award per il miglior revival, ha una sua certa utilità: ricorda che niente cambia, mentre tutto cambia.

Eppure, è un prodotto irrimediabilmente datato e ho l’impressione che, probabilmente, al di fuori della scena newyorkese e, per estensione statunitense, rischi di avere un impatto sociale e artistico decisamente minore che in patria. I personaggi sono tipici di un contesto, incarnano stereotipi che appartengono a un luogo e a un’epoca precisi e, come tali, si esprimono e agiscono in maniera circoscritta, azzardo a dire estremamente georeferenziata.

In sostanza, è un datato dramma da camera, con tutti i pregi e i difetti del genere.

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