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Repulsion / 19657.5103 voti

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VOTO:
8

Credo che, insieme a L’inquilino del terzo piano e a Rosemary’s Baby, Repulsione possa costituire un trittico sulle declinazioni dell’ossessione e della paranoia.
Mentre negli altri due titoli, però, vi è una componente esoterica (vera o più o meno conclamata) che li avvicina molto di più al genere horror, in questo primo lungometraggio extra-polacco di Polanski la paura e la tensione sono generati esclusivamente da deviazioni della psiche umana, corrotta da eventi traumatici solo apparentemente sopiti.

Sono rimasta estremamente colpita dall’incosciente dualismo della protagonista, Carole, pienamente donna nella sua morbida e matura fisicità, eppure estremamente infantile nei gesti e nelle competenze (non sa assumersi responsabilità “da adulta”, come la preparazione dei pasti o il pagamento dell’affitto, non tiene in ordine la propria stanza, non sembra mai pienamente consapevole della propria avvenenza e, in realtà, nonostante sia naturalmente elegante, non sa curare la propria persona).

Lo spettatore è inevitabilmente avvinto dal suo disagio, ravvisabile fin dai titoli di testa, in cui uno dei suoi occhi, fisso, è primo indizio di alienazione: gli spazi dell’appartamento in cui ella si muove, pur ampi e ariosi, e perfino le strade, così stranamente soleggiate, pur trattandosi di crocicchi londinesi, si chiudono su di lei come una morsa, quasi a simboleggiare la prigione mentale entro cui la protagonista sta progressivamente rinchiudendosi.

Con estrema maturità espressiva, Polanski usa in maniera magistrale la metafora del nido domestico, trasformandolo in carcere mentale e fisico, pericoloso ed infido, in cui le carni divengono putrescenti e tutto, dagli alimenti alla psiche, è destinato a deperire: questo versante simbolico raggiungerà piena espressione negli altri due titoli del trittico, ma qui sono presenti tutti gli elementi disturbanti della sua “filosofia domestica”, vicini anziani ed impiccioni compresi (perfino in Frantic e Carnage ve n’è un accenno).

L’incapacità della protagonista di esprimere esplicitamente il proprio disagio (ella, al massimo, scuote il capo, prega come una bambina la sorella, si scusa o singhiozza) accentua la clausura psicologica verso cui sta dirigendosi: nessuno (forse) ha mai conosciuto i suoi traumi pregressi, nessuno potrebbe comprendere, ora, il suo malessere.
Un soggetto così vulnerabile è polo d’attrazione per molteplici tipologie maschili: dal laido profitattore (il padrone di casa), al playboy incuriosito dalla fragilità femminile facilmente soverchiabile (Calvin), fino all’uomo di mondo (l’amante della sorella) che, probabilmente, è l’unico ad intravedere e ad ammettere una disfunzione comportamentale palese (senza, peraltro, impegnarsi per porvi rimedio).

Il movimento di macchina conclusivo, strettissimo, soffocante, si conclude sull’ingrandimento di una foto che ritrae il viso stranamente diabolico di Carole bambina: la sua catatonia, palese già nell’infanzia, è estremamente inquietante e raggela lo spettatore più di qualsiasi altra trovata orrorifica.

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