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Natale in Casa Cupiello / 20205.924 voti

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Non mi piace (questo) presepe

di
VOTO:
5

Quella che era una tragicommedia dove spirito e dramma si alternano e si mescolano strappando sorrisi a bocca amara, è stata trasformata in una tragedia dai toni pesantissimi e cupi. E’ una rilettura, per carità, ma io non la condivido.
Luca “Lucariello” Cupiello è l’immaturo, l’illuso, l’anima candida che vive beatamente le sue ingenuità (ce lo dice lo stesso Eduardo De Filippo nella clip introduttiva d’epoca) immerso in una realtà ideale, convinto che tutto attorno a sé vada grossomodo bene, a prescindere dai bonari battibecchi con la moglie e il fratello, dai i burberi rimbrotti al figlio scansafatiche e dagli attriti tra figlia prediletta e genero venerato, e la sua preoccupazione più grande è quella, appunto, della preparazione del presepe (simbolo di tutto ciò che è ideale e perfettamente armonico); per questo trovarsi di fronte al crollo delle sue illusioni gli provoca un tracollo fisico senza rimedio – gli prende un colpo, anzi ‘na mossa per dirla alla napoletana (e spero di non aver distorto troppo la grafia corretta dell’espressione). Il Luca Cupiello di Castellitto (e di De Angelis, magari) è invece irascibile, rancoroso verso la moglie detestata, scontento della figlia intemperante, del figlio scansafatiche e del fratello lagnoso, e soprattutto dà proprio l’aria di essere più che consapevole come tutto attorno a lui sia disseminato di macerie, come la sua famiglia sia quanto di più disfunzionale ci possa essere, ma ciò nonostante (anzi, forse proprio per questo) esige che tutti continuino come se ogni cosa fosse perfettamente normale, come se tutto funzionasse come dovrebbe, anche contro l’evidenza; il crollo fisico che ha, allora, non so come spiegarlo se non come dovuto alla forzata presa d’atto del proprio fallimento.
Non ho apprezzato l’immagine data di Concetta, la moglie di Lucariello. Il vero uomo di casa, il pilastro della famiglia, la concretezza personificata, colei che effettivamente si adopera a tenere tutti i pezzi insieme è stata trasformata in un’anaffettiva “casalinga disperata” che contrasta il malsopportato marito a prescindere e che si ubriaca in solitudine; tra i suoi difetti da tipica mamma meridionale (absit iniuria verbis) sempre dalla parte dei figlio anche contro l’evidenza, viziatrice della prole fino all’eccesso, col pallino del “buon matrimonio” per la figlia e sempre pronta ad usare l’arma materna per eccellenza ossia il ricatto psicologico, quello del bere di nascosto ci sta proprio malissimo, a tal punto da snaturare il personaggio che, diciamolo pure, nell’economia della trama ha comunque le sue colpe pregresse nella situazione creatasi in famiglia, ma questo è un altro discorso.
Poco da dire sullo zio Pasquale (lagnoso e fin troppo vittima del nipote, qui, piuttosto che in guerra costante – ma può starci come reinterpretazione del personaggio), su Nicolino (giustamente rabbioso), Ninuccia (non approfondita come invece mi sarei aspettato), Tommasino (l’indisponenza c’è, forse manca un po’ del piglio del bambinone) e Vittorio Elia (alterna momenti di spavalderia e di imbarazzo, giustamente impacciato nel trovarsi inaspettatamente(?) in quel contesto).
Non c’è traccia di leggerezza, mai, e anche quelle che dovrebbero essere battute d’ironia sono divenute frecciate a denti stretti. Il clima è opprimente, la pentola a pressione surriscaldata e sull’orlo dell’esplosione è sempre lì in primo piano sotto gli occhi di tutti. Mancano i momenti che dovrebbero allentare la tensione. Le amenità che si affacciano su una scena altrimenti tragica è il tratto caratteristico di questa “commedia” eduardiana, ed è un tratto che è stato fatto venir meno. Ribadisco, è una reinterpretazione legittima ma che non sento di condividere.
Non mi spiego la necessità di traslare la narrazione dagli anni ’30 agli anni ’50 visto che il nuovo contesto temporale non solo non porta nulla di nuovo alla narrazione ma nemmeno lo si percepisce più di tanto (se non l’avessi saputo dalle interviste di Catellitto in giro sulle reti Rai non l’avrei mai colto da solo, credo), così come appare inutile l’espansione degli spazi visto che si riduce grossomodo ad una sola unica sequenza (le altre sono dei flash) all’esterno della casa e che nulla aggiunge alla trama, all’approfondimento dei personaggi e alla maggiore comprensione delle dinamiche in atto.
Anche il tenore di vita dei Cupiello non appare qui ben chiaro. La povertà è evidente dal loro dormire nell’unica stanza da letto, dal tetto di lamiera della microveranda, dalle pareti lesionate del salone (ci sono dei fori e il telaio di legno – tipico della muratura antica – è a vista in quei punti) e soprattutto dal freddo pungente che avvolge la casa; peccato che tutto ciò cozzi, però, con il mobilio tutto sommato basso-borghese della casa e con la foggia e le condizioni di abiti e soprabiti esibiti dai personaggi (penso all’impeccabile cappotto di Lucariello che sembra appena uscito da una sartoria – sartoria di scena, appunto? – o addirittura alla sua vestaglia bordata di velluto; ma pure il giaccone di pelle da aviatore di Tommasino).
Una nota su Castellitto devo spenderla. Non intendo parlare dell’attore, non mi interessa farlo, ma trovo che il suo fingere un accento campano (non dico napoletano, perché non m’è parsa per nulla napoletana quella parlata ma più simile a quella della sua interpretazione di San Pio nella miniserie Mediaset – e San Pio era di Pietrelcina, che con Napoli non c’entra proprio nulla) abbia contribuito a rendere la sua interpretazione meno spontanea, meno naturale, anzi addirittura forzata. Come forzato m’è parso un po’ tutto il prodotto, in fin dei conti. Il cast non trasmette quell’intimità di famiglia vera, ma solo l’impressione di attori che recitano la parte assegnata.
Peccato per le aspettative alte (e lo dico da conoscitore di quest’opera di Eduardo De Filippo ma bendisposto ad un rifacimento) che avevo.
Insufficiente.

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