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Logan - The Wolverine / 20177.3274 voti

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LOGAN: LA FINE DI UN’ERA E DI UN MONDO CHE STA SCOMPARENDO

di
VOTO:
7

Nel capitolo conclusivo della serie Spin Off Hugh Jacman veste per l’ultima volta i panni del tormentato antieroe dagli artigli di adamantio alla continua ricerca della sua identità.
In un futuro imprecisato, il mondo è profondamente cambiato. Gli X-Men non esistono più, se non nelle pagine di fumetti che ne narrano le gesta e nei ricordi sbiaditi di un mutante malato e invecchiato. Quello che un tempo si faceva chiamare Wolverine oggi è un uomo sul viale del tramonto, con un passato violento e nessuno stimolo per il futuro. Isolato da qualsiasi forma di calore umano, ritroverà la forza per un ultima battaglia grazie a una giovane mutante dai suoi stessi poteri.
Dopo averci provato con il (molto sottovalutato) remake di Quel treno per Yuma Mangold rispolvera la sua competenza per il western e, tra citazioni e influenze più o meno esplicite di classici del genere come Shane- Il cavaliere della valle solitari o i più recenti The Cowboys di Mark Ridell o Gli Spietati di Clint Eastwood, restiusce a Wolverine la sua essenza e la sua purezza, mettendo subito in chiaro quale sarà il tono del film. Logan è violento, e molto. Da stomaci forti, per intenderci, e la carneficina iniziale ne è la dimostrazione: mai si era visto un prodotto Marvel così esplicito e feroce.
Non solo: puntando fortemente sulla rappresentazione estrema della violenza – che Mangold dimostra di conoscere e di saper rappresentare al meglio – e sull’introspezione, Wolverine è libero da qualsiasi censura visiva e morale, in modo da elavare al centro della narrazione non l’immortale e (quasi) invincibile mutante ma “l’uomo” Logan, sfruttando a pieno la profondità di un personaggio gia potenzialmente devastante.
In uno scenario boderline da terra di confine, tra Mexican Standoff e inseguimenti on the road scanditi e impreziositi dalle note della malinconica Hurt di Johnny Cash, Mangold mette da parte l’ambientazione nipponica del secondo capitolo per una ambientazione postapolittica, inscenando una sorta di western utopistico, con scenografie che ricordano a tratti l’ultimo Mad Max:Fury Road di George Miller. Wolverine non è più nè un soldato in cerca di una morte onorevole nè un Ronin senza padrone destinato a vivere per sempre in cerca di un destino: ormai è solo Logan, un pistolero dal passato violento e tormentato, unicamente dedito all’alcool e all’autodistruzione, in cerca di un’ultima opportunità di redenzione. In declino psico-fisico e in isolamento affettivo, Logan ritrova se stesso per proteggere ciò che resta del suo attempato mentore ormai menomato dall’alzahimer Charles Xavier, altrimenti noto come Professor X e Laura, una giovanissima mutante con i suoi stessi poteri, da un gruppo di mercenari al soldo di una multinazionale interessata a controllare il potere dei mutanti.
E’ così che in Logan torna anche il sostrato politico tanto caro ai creatori di X-Men, e la questione razziale e la discriminazione tornano al centro della storia. Il gene X è visto come una minaccia e non come una risorsa, e in quanto tale va eliminata. Mai come oggi la finzione cinematografica e la realtà (politica e sociale) sono state così vicine, influenzandosi e superandosi a vicenda: in un contesto dove la paura del diverso fa da padrone, il protezionismo e l’omologazione sembrano le uniche barriere (o gli unici muri, per usare una terminologia attuale) contro la diversità e le sue forme più varie. Tralasciando il discorso politico e continuando a ragionare in 16:9, una cosa è certa: Logan è una scommessa che spezza il conformismo del piatto universo Marvel e dimostra che un modo diverso di fare cinecomic esiste. Man mano che gli artigli di Logan spezzano arti e mietono vittime, la sensazione di assistere a qualcosa di straordinario diventa sempre più una certezza. Il duo Mangold – Jackman sovverte il “pensiero unico” targato Marvel e vince la sua scommessa, firmando un’opera conclusiva che sa tanto di opera prima, quantomeno nel suo genere, un pò come fece Sergio Leone con i suoi spaghetti western.
Se Christopher Nolan col suo Cavaliere Oscuro ha elevato lo standard ad un livello successivo, Mangold da ulteriore dignità al genere, compiendo un passo ulteriore verso il pieno riconoscimento. Certo, il prezzo che paga è altissimo, ma il sacrificio di Logan è un sacrificio necessario. Jackman, d’altronde, ha dato tutto se stesso alla parte, rendendo onore al personaggio che l’ha proiettato nell’olimpo dei grandi di Hollywood con un’interpretazione magistrale, mettendosi in gioco come mai aveva fatto nei precedenti 17 anni di Wolverine e spingendo se stesso oltre ogni limite fisico ed emotivo. E non poteva essere altrimenti, visto che pochi attori hanno avuto il privilegio di invecchiare insieme al proprio alter ego cinematografico (ogni riferimento a Rocky Balboa non è puramente casuale).
Stesso discorso vale per l’ottimo Patrick Stewart che presta per l’ultima volta il suo carisma al telepata Charles Xavier, affetto da una malattia neurologica degenerativa che gli causa continui attacchi psichici dalle potenzialità devastanti, ma ancora capace di regalare bagliori di speranza e di luce, contraltare perfetto al pessimismo cronico che avvelena la mente e il corpo di Logan.
Da segnalare la prova di Boyd Hoolbrook nel ruolo del villain, che lascia l’universo Netflix per dare la caccia ai mutanti invece che ai Narcos e il debutto della giovanissima Dfane Knee nel ruolo di Laura (X-23), giovane mutante che sicuramente farà parlare di se negli anni a venire. Mangold e la Marvel stessa hanno lasciato intendere che la storia di X-23 e dei suoi giovani amici è tutt’altro che finita.
Nonostante alcuni difetti più o meno evitabili, l’ultimo atto di Wolverine è un film maturo, triste, malinconico, capace di raccontare la fine di un’era e di un mondo che sta scomparendo, un vero e proprio atto d’amore, un omaggio cupo e nostalgico a un cinema e a una generazione che non c’è più, ma allo stesso tempo è molto più che un grido di speranza verso le generazioni che verranno.

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