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L'angelo sterminatore / 19628.5165 voti

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L’angelo sterminatore: repetita iuvant

di
VOTO:
7

Metaforico e simbolista all’ennesima potenza (e, per questo, a mio parere, paradossalmente troppo esplicito), qui Buñuel si diverte a prendere a pesci in faccia un paio delle figure sociali che maggiormente fatica a sopportare: la borghesia ed il clero.

L’immobilismo mentale del ceto medio e/o arricchito corrisponde all’incapacità fisica di uscire sia da una stanza che dalle convenzioni create in secoli di codici comportamentali giudicati anacronistici e vacui.
Al contempo, questa barriera invisibile impedisce che, dall’esterno, si possa violare il regno borghese, la sua apparente solidità, i suoi schemi.
Eppure, come viene mostrato nel film, basta poco perché l’irreprensibilità, la “giustizia”, i codici etici e morali possano smettere di funzionare, a favore di un costante e progressivo degrado del corpo e della psiche. E, allora, al desiderio di far parte di un’accolita d’élite, subentra la repulsione nei suoi confronti.
L’indigenza assimila gli uomini. Ed è nel momento di massima crisi che i protagonisti comprendono che, forse, collaborando, una soluzione (per quanto assurda) è prossima.

E se, in un primo momento, sono le lusinghe dorate della vita agiata ad imprigionare ed accecare i convenuti, è, poi, la Chiesa a costringerli nuovamente in una condizione di convivenza forzata ed indesiderata.
In questo senso, il gruppo di pecorelle che attraversa il sagrato per entrare nell’edificio, le cui campane suonano stonate, è un’immagine semplice, ma ridicolmente efficace.

Bello il gioco della ripetizione apprezzato e spesso adottato, come in questo caso, da Buñuel: aumenta l’atmosfera da fiaba truce che sottende la storia.

Nota: la seconda metà del film mi è parsa inesorabilmente più cupa, punteggiata da foschi tratti di negromanzia spicciola e da dettagli surreali e disturbanti come quello della mano mozza che, risalendo e tastando lascivamente il petto di una delle convitate, tenta poi di strozzare la donna.

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