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Due giorni, una notte / 20146.8115 voti

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VOTO:
5

A quanto pare, e non solo nel cinema italiano più recente, l’importanza etica, morale e sociale trattata nei film è considerata materiale di facile fruizione: quasi una “condicio sine qua non” si possa verificare l’atto cinematografico di denuncia o di conforto in un’epoca dominata dalla crisi. Ma in “Due giorni, una notte” i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne non tengono conto del fatto che questa importanza non sia però di per sé sufficiente, laddove il tema venga poi sviluppato senza un minimo di incoraggiamento empatico. “Due giorni, una notte”, infatti, si circoscrive e si devitalizza in un racconto dall’andamento piatto, e neanche troppo documentaristico, sulla storia di Sandra: una donna in preda alla depressione che, spinta dal marito Manu, si reca a bussare alla porta dei suoi colleghi allo scopo di suscitare compassione in ognuno di loro.

Tra reazioni talvolta esitanti, talvolta aspre e talvolta solidali, il film raggiunge un esito fra i più scontati. La protagonista, interpretata da una Marion Cotillard evidentemente (e a suo rischio) sempre più assuefatta a ruoli caratterizzati da una diffusa tristezza, offre un punto di vista sulla situazione improntato verso un’unica direzione e si trascina faticosamente per un’ora e mezza di durata: tale è l’infinito peregrinare di questa povera “Rosetta”, tra pianti ripetuti e reiterati, mentre l’unico momento veramente critico è rappresentato dal tentativo di suicidio di Sandra. I Dardenne danno modo di pensare che in tal modo sia più facile trasmettere il loro bizzarro senso di solidarietà, piuttosto che svilupparlo in una maniera più vicina alla realtà, esprimendo anche l’energia richiesta da un dissesto come questo, declinato invece in una chiave tutt’altro che politica.

I registi finiscono così per rendere fin da subito vittima la propria “eroina”, sempre fragile quasi a volersi accattivare il pubblico, e che si riscatterà con una soluzione nella quale conta non tanto l’effetto, quanto il gesto. Sandra recupera sì una sua necessaria dimensione di dignità, ma al prezzo di una pellicola che va elemosinando senza sincerità l’empatia dello spettatore, stantia nel suo fondo di irritante opportunismo. Per stimolare, coinvolgere, emozionare e far sentire rappresentato il proprio pubblico c’è bisogno di qualcosa di più profondo, non blando: di un racconto in grado di analizzare temi portanti della contemporaneità e strettamente collegati ad una realtà non troppo lontana dalla nostra.

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