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Cella 211 / 20097.3173 voti

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L’insostenibile intreccio della vita

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A pochissimi giorni da Hunger (di Steve McQueen), in modo del tutto casuale [miracoli squisitamente televisivi ;-)], mi trovo catapultata in un altro universo carcerario, spagnolo questa volta, in cui, tra le molte differenze, emergono alcuni interessanti parallelismi. Sarà forse per questo, o sarà perché il genere “carcerario” mi attira sempre, ma rimane il fatto che questo film mi ha colpito.

Diciamo subito che, a mio parere, non è certo un capolavoro; i commenti letti mi sembrano in genere un po’ troppo sopravvalutanti. La regia è certamente buona e con qualche soluzione valida, ma per quanto Cella 211 sia interessante, non c’è paragone possibile – certamente, dal punto di vista filmico, ma anche in generale – con Hunger, tuttavia, bisogna riconoscergli quella potenza di trama che proprio in Hunger avevamo percepito un po’ manchevole. E per trama intendo proprio lo svolgimento narrativo, l’intreccio.

Ancora una volta, non è tanto questione di contenuti trattati, ma proprio di struttura narrativa: accurata, coerente, con picchi progressivi di tensione, con diversi risvolti originali – diciamo, sufficientemente inaspettati – con valide incursioni nella psicologia e nell’emotività dei personaggi – Juan/Alberto Ammann è meravigliosamente convincente in questo ruolo via via sempre più borderline – senza concessioni al sentimentalismo (tanto meno quello da botteghino o da facili consensi), in cui il ricorso alle scene di “genere” è contenuto e, con, infine, quel pizzico di “tout-se-tient” che mi piace da morire, perché comunica inevitabilmente una riflessione simbolica sugli eventi, e non una mera giustapposizione di fatti possibili, o una sequenza di stralci “rubati” alla realtà e conditi di (improbabile) fiction.

Anche solo per questo, Cella 211 vale i suoi 112 minuti di visione.

Ah, già, il tema. Bello e coinvolgente in sé – per chi si pone domande sull’esistenza, soprattutto – oltre che trattato bene, terribilmente “reale” per ciascuno di noi, anche quando scegliamo di ignorarlo, e incredibilmente presente in ogni singolo istante della nostra vita: l’indecibile dualità tra caso e necessità, l’impossibile determinazione tra fato e coincidenza, tra ineluttabile e accidentale, tra inevitabile e fortuito, tra libero arbitrio, inclinazione naturale e condizionamento ambientale… insomma, tanto vale dirla con le parole di Malamadre: “A volte, la vita ti fotte senza che te ne accorgi”.

Non rimane che una notazione: ecco qui il rovescio della medaglia della questione centrale di Hunger: la differenza – necessaria, giusta, infondata? – tra “prigionieri politici” e ”prigionieri comuni”.

P.s.
Ho scoperto un minuto troppo tardi che dietro la sceneggiatura c’è un libro: Cella 211 di Francisco Pérez Gandul. Senza nulla togliere alla trasposizione cinematografica che, come insegnano moltissimi casi (vedi tra tutti Espiazione di Joe Wright tratto dal romanzo di Ian McEwan), non è affatto da dare per scontata, certamente una ragionevole spiegazione della buona coerenza narrativa, dell’intreccio ben sviluppato, del risvolto psico-emotivo dei personaggi, risiede lì.

E per una volta lasciatemi dire qualcosa di positivo sulla versione italiana 🙂 Un “Bravo!” a Francesco Pannofino, che doppia Luis Tosar (Malamadre): un bell’esempio di quando, come si dice in gergo, una voce si “appiccica alla faccia”.

Questa recensione ha 3 commenti

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