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Annientamento / 20186.2215 voti

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Lo sprofondamento del sé

di
VOTO:
7

“Dio non fa errori. Per questo è Dio.”
“Secondo me ne fa. Se prendi una cellula, e aggiri il limite di Hayflick, previeni l’invecchiamento. Significa che la cellula non invecchia più, diventa immortale. Si divide in eterno e non muore. L’invecchiamento non è un processo naturale, ma un errore genetico.”
Tale scambio di battute racchiude il senso del film “Annihilation”, diretto dal regista inglese Alex Garland, già sceneggiatore per Danny Boyle di due notevoli pellicole come “28 giorni dopo” e “Sunshine”, e qui alla seconda esperienza registica dopo l’ottimo “Ex Machina” (2012) con Alicia Vikander e Domhnall Gleeson. Nel caso di “Annihilation”, il soggetto della storia è tratto dall’omonimo romanzo di Jeff VanderMeer, primo capitolo della trilogia dell’Area X; ed è lo stesso Garland a curarne la sceneggiatura. La produzione è spettata anzitutto alla Paramount, mentre la distribuzione, se da una parte ha riguardato le sale di soltanto tre paesi (USA, Canada e Cina), nel resto del mondo è avvenuta sulla piattaforma virtuale di Netflix, facilitando un’errata e forse controproducente associazione da parte del pubblico: si è infatti creduto che anche la produzione derivasse da Netflix, la qual cosa, nei pareri di coloro che non hanno gradito l’opera, ha aggiunto un ulteriore e per lo più immotivato elemento di discredito.
Partendo dal titolo, in italiano è rilevabile una sorta di equivoco semantico, in quanto “Annientamento” suggerisce subito un’immagine di distruzione, di aggressione e cancellazione violenta, specie se il termine viene accostato ad una guerra o ad un’invasione nemica (e questa seconda circostanza sembrerebbe essere la stessa del film, sebbene l’interpretazione si riveli poi poco persuasiva). Curiosamente, il vocabolo inglese “Annihilation” mantiene al proprio interno la radice latina “nihil”, mentre la versione italiana, da “niente”, subisce la mediazione del francese antico “neiènte” (dall’etimologia incerta, forse con la contrazione di “ne inde”, “nec entem” o “ne gentem”). Qui poggia una differenza sostanziale, siccome l’etimo latino presenta una sfumatura più generica, meno materiale, quasi ontologica, e di conseguenza la parola inglese assume sottilmente il senso di “riduzione al nulla”, che in italiano equivarrebbe ad una sorta di “annichilimento” non unicamente sensoriale, cioè di passaggio da uno stato di essenza ad uno di sprofondamento – dunque di trasformazione – del sé: tradizionale idea religiosa tipicamente orientale. Sulla base di una simile discrepanza del significato, ci è possibile illuminare certe metafore del film che altrimenti rischiano di essere banalizzate o fraintese; e si può anche tornare all’argomento iniziale dell’errore genetico.
L’intera vicenda ruota intorno ad una zona misteriosa nella quale, in seguito al precipitare d’un meteorite, avviene un mescolamento di geni, con conseguenti epidemie tumorali e mutazioni incontrollate, dalle sembianze talora multiformi e variopinte, talora mostruose e terrificanti, che coinvolgono piante, animali e quindi uomini. Proprio il tumore si afferma come il grande antagonista della storia, almeno fino a poco prima della conclusione, dove la sua essenza maligna si scopre essere frutto di una volontà cieca e forse inconscia, ma pressoché vicina al divino: se l’evoluzione poggia in primis sugli errori genetici, tra i quali va annoverato anche il tumore, tutto finisce col diventare un enorme esperimento condotto dalla natura medesima. Ogni inceppamento, ogni anomalia, ogni difformità assume perciò il valore di uno stadio intermedio, una tappa necessaria in un flusso di inarrestabili tentativi, molto spesso mal riusciti, di modificare l’ambiente e di modificarsi a sua volta, da parte di un dio imperfetto e immanente, quasi un “deus sive natura” di spinoziana memoria, col solo dono della modellazione. Dunque un inconsapevole demiurgo, forse uno dei tanti che vagano nell’universo ospitati sopra stelle e meteore, da cui all’occasione proviene la vita, mentre la materia può essere solamente rimescolata secondo il principio di Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Ne derivano anche i riferimenti alla circolarità e alla ripetizione, mediante il recupero di certe inquadrature, rispettivamente all’inizio e alla fine (si pensi al bicchiere d’acqua) con lievissime differenze, e più apertamente, l’immagine dell’Uroboro sotto forma di tatuaggio che, dapprima evidente sul polso della compagna di viaggio (Gina Rodriguez), ricompare poi sul braccio della stessa protagonista (Natalie Portman) nell’assorbimento progressivo operato dal suo corpo delle varie informazioni, genetiche e non, rimbalzanti all’interno dell’Area X.
In modo analogo, senza troppo forzare la narrazione fantascientifica, si potrebbe estendere l’impianto interpretativo all’evoluzione esistenziale cui va incontro la donna, biologa e professoressa, attraverso un trauma di natura coniugale e sentimentale da affrontare insieme al marito militare (Oscar Isaac) e al collega amante (David Gyasi). I vari flashback avvalorano questa lettura; e così l’ultima scena, coi protagonisti stretti in un abbraccio quasi fraterno, andrebbe intesa come il compromesso che due individui debbono accettare se intendono oltrepassare una crisi, quando entrambi, sopravvissuti alla catastrofe, appaiono però mutati, in un certo senso sdoppiati rispetto al passato, con la comune esperienza eretta a nuovo fattore di coesione. Ciò consentirebbe anche di capire perché gli altri personaggi femminili, portatori sottopelle di un’indelebile tragedia, si abbandonino alla resa o alla distruzione. Eppure, dando per buono il suggerimento, è meglio non calcare troppo la mano. Il rischio di una tale chiave di lettura, se accolta nella sua interezza, potrebbe rivelarsi quello di sminuire il fascino ambiguo dell’opera, tanto sostenuto dai toni metafisici ed enigmatici, quanto da una raffinata impalcatura estetica. Poiché la vaghezza e la rarefazione di “Annihilation” costituiscono anche il suo punto debole, a causa di un intento di per sé meritevole ma eccessivamente sfilacciato lungo una serie di archi temporali gestiti in modo altalenante, specie durante la prima metà del film, e a causa di uno spessore filosofico che forse andava adeguatamente rimpolpato, rischiando altrimenti di sembrare superficiale e, in sostanza, vuoto, quando invece non lo è affatto.
Da apprezzare comunque la ricchezza di omaggi allo “Stalker” di Tarkovskij, la cui presenza si propaga dall’inizio alla fine come una radiazione di fondo, insieme ad altri ammiccamenti cinematografici, tutti di grande gusto: da “Apocalypse Now” a “2001: Odissea nello Spazio”, da “La cosa” a “L’invasione degli ultracorpi”.
Una nota di merito va senz’altro rivolta ad alcune sequenze in grado di sgomentare e turbare con improvvisa efficacia (il terribile urlo umano emesso dalle fauci dell’orso, ad esempio, suona a dir poco agghiacciante, almeno nella versione originale del film). Decisamente suggestivo il lavoro alle scenografie dell’Area X, valorizzate da una fotografia verdognola e bluastra, in una continua alterazione come per effetto di un prisma repellente e strabiliante che non cessa di riverberare ovunque.
In definitiva, quello di Garland non va inteso come un passo indietro, quale alcuni lo hanno giudicato rispetto ad “Ex Machina”, bensì come un apprezzabile passo all’interno dell’area esplorativa che la fantascienza da sempre pone al centro delle proprie indagini. Parlare dell’universo e dei misteri in esso racchiusi, infatti, significa parlare del destino, vicino o lontano, luminoso e indecifrabile, che attende ciascun essere vivente, incluso – e forse più degli altri – l’uomo.

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