Agora è un film che, tecnicamente, visivamente e narrativamente raggiunge un livello notevolissimo.
Vi è un accurato intreccio di personaggi; un intenso e violento incontro di passioni, di conoscenza, di opportunismi, di assolutezza, di amore, di fanatismo e follia.
Ipazia, la filosofa e astronoma intorno alla quale ruota la vicenda, è una donna che, stimata e ascoltata nel mondo pagano, con l’avvento brutale delle sette cristiane perde la propria funzione di guida e di sapiente, venendo considerata alla pari di una strega e di un’eretica. Ciò nondimeno, dopo una appassionata ricerca, sarà proprio Ipazia ad anticipare di più di mille anni le teorie di Keplero, elaborando una concezione eliocentrica dell’universo, e comprendendo addirittura – nel V secolo dopo la nascita di Cristo – che l’orbita compiuta dalla Terra intorno al sole, non è circolare, bensì ellittica. Si mostra, quindi, come una donna che fugge gli uomini, poiché vive in un rapporto altissimo con la Conoscenza e con la Filosofia: malgrado l’amore dichiarato di un ragazzo che assiste alle sue spiegazioni, e malgrado l’amore ben nascosto di uno schiavo, Ipazia non si concederà a nessuno, ed anzi consacrerà la propria esistenza alla Verità. Quest’ultimo aspetto emerge ancor più chiaro quando, stando distesa accanto all’uomo che di lei è innamorato, ella continua ad osservare il cielo stellato e prova quasi a stringerlo tra le dita, affermando che potrà morire felice solo dopo aver compiuto quel passo finale – che di fatto compierà – col quale concludere la propria teoria astronomica.
Per il resto, il film è costellato di scene d’una grande drammaticità, alle quali si accompagnano dialoghi mai banali o superficiali: si evita cioè una superficialità da kolossal, e al contempo il film non diviene una pura trasposizione scolastica; ciò a cui si mira, infatti, è una compenetrazione dei livelli visivi-divulgativi-narrativi. Le telecamere mutano quasi in “occhi poetici” quand’ecco offrono allo spettatore alcune inquadrature che riflettono la soggettività del personaggio (splendida quella finale: Ipazia fissa gli occhi sul soffitto della sala nella quale sta per morire, laddove un varco nella pietra le si presenta come un’ellissi – ed eccola dunque cogliere l’Assoluto prima della Morte; quella forma geometrica, che poi, dopo il suo omicidio, si rivelerà invece essere un cerchio – segno dunque del ritorno alla concezione geocentrica e circolare, quanto all’orbita, che caratterizzerà i secoli successivi fino a Keplero).
I personaggi, rispetto al parere espresso da altri, non sono affatto bidimensionali, bensì approfonditi in molteplici sfumature, o sublimati con abilità: Ipazia, come si è detto, sprofonda nella ricerca e diviene quasi un simbolo odissiaco; lo schiavo compie un percorso di amore-odio-amore, dapprima amandola nell’ombra, poi allontanandosene bruscamente, e infine, dopo aver cercato invano di dimenticarla, rincorrendola, tentando di salvarla, costretto quindi a imporle lui stesso la morte. Il prefetto è combattuto dall’amore, dall’opportunismo, dalla debolezza e dalla paura. Il vescovo, vera e propria figura politica, abilmente travisa le Sacre Scritture e manipola il gregge cristiano.
Nonostante l’uscita del film sia stata vergognosamente ritardata, tra le varie accoglienze assai favorevoli ricevute dalla pellicola, gran rilevanza ha avuto quella di Umberto Eco.