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10 Cloverfield Lane / 20166.5190 voti

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Ma che, scherziamo?

di
VOTO:
7

Del sequel non ha l’intenzione, né di fatto le fattezze finali. Il legame con quel “Cloverfield” del 2008, esperimento cinematografico nel suo complesso riuscito, firmato Reeves (regia) e J.J Abrams (in veste di produttore), resta tutto nel titolo, e nel lancio pubblicitario: “10 Cloverfield Lane” vuole essere un’altra cosa. O almeno tenta di essere altro. E prima di arrivare ad un finale posticcio e sbagliato ci riesce in maniera degna e con egregi risultati.
L’opera prima di Dan Trachtenberg di fatto percorre i sentieri narrativi del cinema claustrofobico e costruendosi su dinamiche strutturali proprie del genere thriller: avvalorandosi dell’apporto in sede di sceneggiatura tra gli altri di Damien Chazelle (“Whiplash”) l’operazione, così pensata, riesce con estrema lucidità, instaurando anche con lo spettatore un rapporto di tensioni e distensioni, che mantiene il livello di interessamento e coinvolgimento sempre alto. Se porti la tua macchina da presa dentro un bunker sotto terra, e hai la possibilità di inquadrare location limitate e dentro queste “raccontare” tre soli personaggi, va da sé che questi debbano avere caratteristi forti, e dominanti: il “buon” John Goodman, dal fiato pesante, e dai movimenti lenti ed impacciati, impersona perfettamente Howard, il creatore del bunker, il personaggio plasmato a partire dall’ambiguità delle proprie azioni e con il materiale della bugia, che è insita nelle sue parole. Fuori è in atto un’apocalisse aliena, così lui afferma: ma la giovane Michelle fa fatica a credergli, convinta che il vero mostro e l’alieno sia proprio lì in quel bunker con lei, e non fuori; cerca perciò di scorgere in ogni momento l’occasione per poter evadere da quella che percepisce come prigione e “privazione”. È lei, in quanto incarnazione del senso di salvezza, ad essere l’ingranaggio che mette in moto i vari snodi narrativi del film, interpreta il senso di curiosità dello spettatore e l’istinto di sopravvivenza in questo schema dei personaggi. Ha le sembianze di Mary Elizabeth Winstead, e non sembrano fuori luogo. Nemmeno Emmet, che pare ininfluente, come colui che media, ma che per buona parte del film assume invece la stessa posizione dello spettatore, incerto su chi e cosa credere. E ci porta dentro quel bunker.
La scoperta costante di nuovi elementi e pezzi del puzzle (immagine metaforicamente rappresentata proprio da un puzzle composto dai tre, a cui mancano alcuni pezzi), condurrà il caso verso la sua soluzione, e le varie “parti” a mostrarsi realmente per quello che sono, ed infine, inevitabilmente, a giocare il loro ruolo nella vicenda. Il tutto regge, perché non è lasciato al caso, ed anzi fonda la propria forza sui dettagli, su sequenze di pura sceneggiatura giocate (letteralmente) sull’equivoco, che porta alla partecipazione attiva dello spettatore: ma, a fronte di quanto possa sembrare se lo si guarda superficialmente, il film si indirizza verso una direzione precisa, e dipana il groviglio a svelare il filo conduttore, che lo spettatore inizia a scorgere in modo graduale, fino a vederlo chiaramente. In modo logico e razionale. Il finale, fuori dal bunker, pertanto è ristabilire la matassa, ingannare l’interlocutore, sbeffeggiare la sua intelligenza, e quindi svalutare e rendere incoerente, sia da un punto di vista della storia, sia del racconto, tutto quello mostrato in precedenza. E la battuta della protagonista “Ma che, scherziamo?” intercetta, purtroppo, lo stesso stupefatto disappunto dello spettatore.

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