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Il figlio di Saul / 20157.265 voti

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Orrore e noia. Anzi: noia, e poi orrore.

di
VOTO:
6

Saul, ebreo prigioniero a Auschwitz, è impiegato nei Sonderkommando, il reparto di ebrei obbligati a collaborare con le SS alla cremazione degli altri prigionieri. Sullo sfondo della rivolta di questi Sonderkommando, Saul attraversa il campo alla disperata ricerca di un rabbino che dia degna sepoltura a un ragazzino, che Saul crede (o vuole considerare) essere suo figlio.
Girato in 4:3, in lunghi piani sequenza, in tempo reale, e in costante falsa soggettiva dall’esordiente alla regia László Nemes, che avrà avuto sicuramente i suoi validissimi (anche se non sempre originalissimi motivi per adottare ognuna delle tecniche suddette, alcune delle quali adottate come dichiarazione di indifferenza verso lo spettatore. Il 4:3 con il primo piano del protagonista sempre presente è un formato ansiogeno, perché tutto può succedere (o sta succedendo) e lo spettatore non riesce a vederlo. Lo spettatore vorrebbe guardare, capire, empatizzare, ma gliene viene negata la possibilità. La falsa soggettiva è particolarmente meschina, in questo senso: la macchina da presa inquadra sempre Saul in primo piano, di fronte o di nuca, e raramente inquadra il resto, ciò che Saul vede e lo spettatore no. Da un lato indica che a Saul non interessa ciò che accade lì attorno, lui è ostinatamente concentrato sulla ricerca di un rabbino. Dall’altro lato lo spettatore pensa che sia stupido mettersi a cercare un rabbino per un inutile rito funebre, quando lì attorno si manifesta l’Inferno nella sua più realistica approssimazione mai sperimentata. E è questo che allo spettatore interessa, ma non lo può vedere, o lo vede sfocato, o lo sente e basta, e in ogni caso non può concentrarcisi, perché davanti c’è Saul spiritato che chiede del suo fottuto rabbino.
Tutta la riflessione e l’atto di perpetuazione della memoria che i film sulla Shoah sempre si propongono di suscitare, Nemes li pospone a dopo la visione del film. Durante il film non siamo i benvenuti, non è richiesta la nostra complicità, né il nostro moto d’attivismo civile. Farsi piacere questo film è l’illusione di stare dalla parte di Saul, che è invece un demonio ansioso di seppellire quel ragazzino, l’ultimo brandello di carne che lo legava al consorzio umano, per potersene finalmente andare e con la maledizione di Dio e la nostra (altro che empatia). La sua inquadratura finale, quando la camera finalmente lo abbandona anch’essa, io la interpreto così. Dopo, a film finito, agli spettatori rimane nel naso l’odore dei cadaveri ammassati, e riparte la riflessione sull’orrore. Ma durante il film, che ha richiesto uno sforzo tecnico e una tenacia artistica inauditi e ammirevoli per tenersi indifferente a noi e riuscire così a raccontare in un modo formalmente nuovo la Shoah, durante il film io mi sono sentito rifiutato, ho persino smesso di considerarlo un film sulla Shoah, e in definitiva mi sono soltanto annoiato.

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