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Memorie di un assassino / 20037.7182 voti

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Assassini comuni

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(Riflessioni sparse)

Ci sono film che non riesco proprio a inquadrare, per cui fatico a trovare una definizione che mi aiuti a incasellarli (benché sia cosa non richiesta, ma che mi diverto a fare per piacere personale) e a proposito dei quali, quando mi chiedono: “Ti è piaciuto?”, non so davvero cosa rispondere. Il secondo lungometraggio di Bong Joon-ho è fra questi. Perchè, dài, cos’è Memorie di un assassino?
Ha l’aspetto di un thriller, ma, come accade sempre nella filmografia del regista sudcoreano, è altro. Sostanzialmente, penso che, come altri suoi lavori, sia un film sociopolitico, di denuncia, mascherato da commedia grottesca che pone in difetto lo spettatore, specie quello extra-asiatico, che quasi si sente in colpa a ridere (o a sogghignare, meglio) nei momenti sfacciatamente più comici e, contemporaneamente, più drammatici del film (penso alle botte date al minorato mentale durante l’interrogatorio, con tanto di calci volanti e sberle sul coppino).

Mentre si compiono i delitti che fanno da filo conduttore al film, la Corea del Sud sembra attraversata da fermenti sociali imponenti (Wikipedia mi dice che, nel 1988, l’anno delle Olimpiadi di Seoul, diventa presidente Roh Tae-woo, che inizia un processo di democratizzazione del Paese. Nel 1986, quando iniziano a compiersi i delitti del film, a capo del Paese c’è ancora Chun Doo-hwan, un Presidente – di fatto, un dittatore- molto contestato. Credo che le manifestazioni studentesche represse con la violenza che si vedono nel film possano risalire alla nuova campagna elettorale di Chun).
Gli omicidi raccontati da Bong si ispirano a quelli avvenuti realmente in una cittadina rurale coreana, tra il 1986 e il 1991. La storia del più famoso assassino seriale sudcoreano (rimasto sconosciuto, come il killer dello zodiaco del Caso Scorpio del Callaghan di Eastwood e di Zodiac di Fincher) è stata portata in scena a teatro nella seconda metà degli anni Novanta da Kim Kwang-lim con il dramma Come To See Me. Bong ne ha curato l’adattamento cinematografico nel 2003, ma ignoro quanto si sia mantenuto aderente al testo teatrale e ai fatti reali.
Certo è che, se c’è un elemento che (mi pare) emerga chiaro dal film di Bong, è il senso di desolazione e scollamento che esiste tra la capitale politica e giudiziaria del Paese (l’invisibile Seoul impegnata nella diatriba elettorale, da cui arriva l’investigatore apparentemente più sveglio, Seo Tae-yoon) e le propaggini rurali dello Stato. Nel paesino dall’incerta vocazione (agricola? Mineraria? Semi-industriale?) e caratterizzata da desolazione e squallore incipienti, esistono tutte le figure e le infrastrutture statali (scuola, stazione di polizia, ferrovia), ma qui non sembra vigere nessuna legge morale e l’ordine apparente sembra assicurato da una sperequazione sociale di stampo misogino (il poliziotto più brillante, non a caso, è una donna), che lascia campo aperto a un assassino seriale che si accanisce sulle sue vittime in maniera sempre più efferata (e se, poi, si trattasse di più di un omicida? Il suo modus operandi cambia nel corso del tempo, il che, narrativamente parlando, [mi] lascia supporre che, dall’assassinio con la pesca in poi, possa trattarsi di una nuova -morbida?- mano. L’ultimo assassinio mostrato, poi, esclude alcuni elementi fino a quel momento tipici – l’indumento rosso, la pioggia, la canzone alla radio- introducendo ulteriori caratteristiche sadiche e una casualità inedita legata alla scelta della vittima).

La polizia locale è un’accolita di uomini incapaci, plasmati sul mito delle serie tv americane e una supponenza bambinesca irritante. La posizione occupata nella scala sociale e nella gerarchia lavorativa permette di compiere scemenze e abusi a briglia sciolta.
Bong contrappone due figure d’uomo: i detective Seo (quello di Seoul) e Park Doo-man (il locale). Il primo sembra possedere un metodo investigativo e un’etica lavorativa (non morale) collaudati. Il secondo vagheggia un intuito mai effettivamente dimostrato e, pur di portare a casa il risultato, è disposto a qualsiasi illecito.
Nel corso del film, i due sembrano scambiarsi i ruoli: c’è un momento in cui le loro linee narrative si intrecciano (l’inseguimento notturno) e dalla sovrapposizione escono interiormente scambiati, con un escamotage quasi fiabesco. Così, mentre Seo deraglia, smarrendo metodo ed etica (di lui, non sapremo più niente), Park cresce (e non è un caso, secondo me, che, alla fine del film, lo si veda “evoluto” in senso occidentale – la sua casa, pulita e luminosa, è ben lontana dai cliché edilizi visti fino a quel momento nel film-, padre di famiglia, apparentemente benestante, responsabilizzato da un lavoro imprenditoriale, sposato con la donna che gli aveva suggerito di cambiare vita). Il Park del 2003 è la metafora del Paese, economicamente proteso verso l’ambita modernizzazione?

Cosa significa il titolo del film, Memorie di un assassino? Non so se l’ho capito davvero. Forse, la chiave sta nella sequenza finale, quella in cui Park parla con una bambina, nei pressi della canaletta di scolo dove, anni prima, aveva rinvenuto il primo cadavere di donna. Che faccia aveva l’uomo che la bambina ha incontrato lì, qualche giorno prima? La ragazzina non lo sa: aveva una faccia comune. Ed è tornato in quel luogo, per ricordare una cosa che aveva fatto. L’assassino non ha mai smesso di pensare ai fatti del 1986: ma in quale modo? Fiero di non essere mai stato acciuffato e pronto a tornare in azione, se “necessario”, o oppresso dal senso di colpa?
L’assassino (o gli assassini, vedi sopra) resta invisibile, uomo comune tra uomini comunissimi, in una società che, alla ricerca dell’emancipazione, ha raggiunto un altro estremo, l’omologazione.

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