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Lei mi parla ancora / 20215.821 voti

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Abbrivio epico, risoluzione molto incerta

di
VOTO:
5

Gli spunti narrativi del film Lei mi parla ancora di Pupi Avati, che si appoggia a un romanzo biografico, sono ottimi e intriganti, anche grazie alla scelta formale di declinare il delirio senile del protagonista maschile in una tenera commistione di piani temporali.
Purtroppo, con tutto il rispetto per Avati, la resa complessiva è incerta.

In generale, non sembra sussistere la premessa del film, il quale, sulla carta, forse inconsapevolmente, quasi si propone come un Big Fish all’italiana: la vita coniugale di Rina (Isabella Ragonese/Stefania Sandrelli) e Nino (Lino Musella/Renato Pozzetto) è stata così ricca e particolare che meriterebbe di diventare un romanzo.
Sicuramente, l’abbrivio dato nel giorno del matrimonio è davvero epico, segnato dalla promessa di volersi a tal punto bene da diventare immortali (che bella parola, lo dice anche Nino-Pozzetto, nel film).

Purtroppo, ciò che, nel film di Avati, ci viene mostrato di questa romantica avventura coniugale non sembra avere davvero nulla di così memorabile da meritare la trasposizione letteraria, prima, e cinematografica, poi (nota: non ho letto il libro di Giuseppe Sgarbi da cui è tratto il film, quindi il “problema” potrebbe essere limitato al solo adattamento per lo schermo). Non che la “normalità” non meriti di essere raccontata, ma, nel corso del film, si parla di eccezionalità. Ma io, davvero, non l’ho colta.

Il rapporto tra Nino anziano e il suo ghost writer (Fabrizio Gifuni) e tra l’uomo e i figli (Chiara Caselli e Matteo Carlomagno) è così aleatorio che è difficile cogliere la proclamata particolarità del personaggio e del suo legame con la moglie.
La voce narrante, che compare a tratti, senza senso di continuità (residuo del romanzo?), non aggiunge niente alla storia: forse, richiama il lavoro dato finalmente alle stampe (ma, allora, perché non affidarla a Gifuni-ghost writer, invece che al pur bravo doppiatore Dario Penne?). Addirittura, quasi confonde, quando fa un vago accenno all’alluvione del Polesine del ’51 e introduce la nuova fase della vita coniugale dei protagonisti.
Resta molto sullo sfondo anche il romanzo che il personaggio di Gifuni vorrebbe vedere pubblicato, in cambio di questa attività di ghost writer: a un certo punto, comparandolo alla storia di Nino e la Rina, lo scrittore decide che non è più degno di pubblicazione. Ma, davvero, è difficile capire cosa, della storia che ha tra le mani, al di là dell’invidiabile durata (65 anni di matrimonio) lo abbia colpito al punto da fargli rigettare un lavoro lungo un lustro.

Forse (azzardo), Lei mi parla ancora ha sofferto di qualche taglio in fase di post-produzione.
Resta il fatto che al film sembrano mancare alcuni rapporti di causa-effetto, utili a consolidare e rendere davvero credibile e particolare il racconto.

A latere (ma neanche troppo, in realtà), ho scoperto solo a fine visione che il Giuseppe Sgarbi del libro era il padre di Elisabetta e Vittorio Sgarbi e che, quindi, il film si basa sulla storia di una nota famiglia di intellettuali. Però, nel lungometraggio di Avati, di tutto questo amore per l’Arte e del fatto di vivere e crescere in una casa (molto affascinante, perché domestica e austera insieme) che sembra un museo non c’è praticamente traccia, nello sviluppo del film.

Infine, per amore di pignoleria, come Nino (veneto con lunga frequentazione ferrarese) sia riuscito ad acquisire uno spiccato accento milanese resta un mistero. Nel film, viene detto che marito e moglie hanno lavorato come farmacisti, con un’attività nei dintorni di Stienta e una a Milano. Ma questo dovrebbe bastare? Il Nino di Musella (per inciso, napoletano) non ha nessun tipo di inflessione. Il Nino di Pozzetto è… Pozzetto.
Questa “disattenzione” è meno evidente nel personaggio della Rina, ferrarese: la Sandrelli (viareggina che ha vissuto a lungo a Roma) ha poche battute e la Ragonese (romana) prova a restare su un registro neutro.

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