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Good Kill / 20145.918 voti

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Un The Truman Show moderno e ribaltato

di
VOTO:
7

Good Kill è un film di guerra. E ad affermarlo si cade nel paradosso: perché il nuovo film scritto, prodotto e diretto da Andrew Niccol (lo sceneggiatore di The Truman Show, o autore di Gattaca, per intenderci) racconta di operazioni militari, atte a sventare eventuali minacce terroristiche nel territorio afghano, compiute da droni, cioè velivoli senza piloti, comandati all’interno di un container in una base militare a Las Vegas, cioè ad 11.000 chilometri di distanza. Non c’è l’uomo sul campo, o su un caccia bombardiere: e tutto si lobotomizza, l’esercizio in sé, le emozioni, le questioni etiche. È una guerra fredda moderna, astratta, che miete comunque vittime, ma quasi deresponsabilizzando chi commette l’atto.
Sulla scia de Il ponte delle spie di Steven Spielberg, per rimanere ad un esempio più recente, ma senza raggiungere tali vette, il film di Niccol riesce a descrivere un conflitto atipico, a suscitare ed evocare la guerra, più che a mostrarla sul campo: se i caccia nell’opera di Spielberg invece che bombe avevano installati potentissimi obbiettivi per scattare foto, e spiare il nemico, in questo caso sono “giocattoli” pilotati a distanza con un joystick. E ancora: se da un lato la guerra emergeva dalla tensione palpabile di estenuanti dialoghi e trattative, qui si palesa solo ed esclusivamente attraverso uno schermo. Niccol non ci mostra luoghi e persone, esplosioni ed uccisioni, tangibili, ma solo filtrate dalla loro immagine, cioè poste dietro ad un velo di finzione, che sappiamo, oggi così potente. In tal modo la distanza geografica aumenta, perché diventa distacco emotivo, percettivo: psicologicamente freddi, gli uomini che guidano i comandi, si trasformano essi stessi, inevitabilmente, in robot, destinati ad eseguire comandi, e a metterli in pratica, con una facilità apatica ed amorale. Con una freddezza da killer onnipotenti.
Il protagonista Tommy, interpretato da un enigmatico Ethan Hawke, vive dentro sé questo dissidio: ex pilota dell’aeronautica, con sei “tour” alle spalle, è in crisi, perché desidera tornare a volare. Desidera tornare a provare la paura, che ti fa sentire vivo, e rende il combattimento vero, il sangue vero, il dolore vero, la vittoria vera. Questa guerra virtuale, da Wii, lo sta logorando: così seppur riesca con questo “lavoro d’ufficio” ad essere quotidianamente vicino ai suoi cari, una moglie che lo ama e due figli, si sente distante. La sua persona è scissa tra il “ciò che si è” e il “ciò che si fa”, l’essere non combacia con la volontà, e anche l’esistenza quotidiana diventa banale: è quindi, in prima istanza, una questione di vocazione. Diventerà anche una questione morale, quando il compito affidatogli di premere quel grilletto prenderà derive drammaticamente più complicate, dopo che la sua squadra viene messa direttamente al servizio della CIA, che non ha scrupoli verso civili, donne e bambini, usati come scudi dai bersagli che loro “presumono” essere potenziali pericoli per gli Stati Uniti.
La rottura interiore si attua, e anche quella del suo mondo esterno: la moglie lo lascia, perché lo percepiva ormai irrimediabilmente “andato”. A questo punto il film scivola un po’, tra azioni di redenzioni, seppur legittime, e simbolismi oltremodo forzati a rappresentare un possibile recupero, una possibile espiazione, e ricucitura: forse troppo frettolosa (alla faccia di chi ha detto che il film fosse lento o noioso). Ma l’opera di Niccol resta comunque virtuosa, sorretta da un sempre eccellente lavoro visivo: il quartiere in cui vive Tommy è geometrico e curato, perfetto nella composizione, per le linee della strada e della casa, e del giardinetto, per i colori, e proprio per questo lo spettatore percepisce più falso di quelle inquadrature attraverso lo schermo delle case e delle strade nel deserto afghano: in tal modo il regista amplifica lo straniamento, del suo protagonista, ma anche nostro. Di fatto Good Kill è capace di far riflettere nella misura in cui riesce a ripescare il cuore pulsante di The Truman Show e trasferirlo in un contesto inusuale, seppur, anche questa volta, maledettamente attuale, e ribaltarne la prospettiva: ci porta dentro al box del dio della guerra, che ha il controllo assoluto, che sceglie chi vive e chi muore, in nome di ideali e salvaguardie. E il registro adottato da Niccol è lucido, mai eccessivamente retorico, quanto potentemente documentaristico. E in ciò sta il dramma maggiore, perché questa volta gli spettatori del reality show siamo noi, interrogati nella coscienza, ma inermi.

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