Una storia pazzesca / 1 Giugno 2021 in Veleno

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

La miniserie documentaria Veleno nasce dal libro-inchiesta “Veleno. Una storia vera” (2019) di Pablo Trincia che raccoglie il materiale usato per un podcast realizzato nel 2017 per il quotidiano La Repubblica. Libro, contenuti audio e, ora, docuserie sono incentrati su un’inchiesta giornalistica relativa a un famoso fatto di cronaca nera italiana risalente alla fine degli anni Novanta e conosciuto come i Diavoli della Bassa Modenese.
Tra il 1997 e il 1998, nei paesi di Mirandola e Massa Finalese, alcuni bambini iniziarono a rivelare storie di abusi e omicidi rituali legate a un gruppo satanista di cui facevano parte anche le loro famiglie e diversi conoscenti. I ragazzini coinvolti vennero allontanati da casa, seguiti dagli assistenti sociali e affidati ad altre persone.
Non hanno mai fatto ritorno in famiglia.

All’epoca della pubblicazione del podcast, mi tornò in mente questa storia, letta sui giornali e sentita ai tg quando rimbalzò agli onori della cronaca.
Fui incuriosita dall’inchiesta di Trincia. Ma non sono una fan dei podcast e non mi ci dedicai. Pare che io abbia fatto un gran male, visti i tanti responsi positivi ottenuti già al tempo.

Il risultato della miniserie Veleno è davvero buono.
Dal punto di vista tecnico, il montaggio, incalzante ma calibrato, è il vero punto forte della serie. Le 5 puntate da circa un’ora che la compongono si divorano.
Ho apprezzato molto il fatto che Trincia e gli autori abbiano voluto e saputo dare spazio alle voci “dissonanti”, a quelle testimonianze disallineate rispetto alla tesi del giornalista (e di altre parti in causa), in base a cui l’intera vicenda giudiziaria raccontata sia frutto di forzature psicologiche messe in atto nei confronti dei testimoni-bambini.

Ho trovato emblematica la frase di una delle protagoniste, ormai cresciuta, che, nel corso di un’intervista, più o meno, ha detto: “Le violenze ci sono state e io ricordo tutto. Negarle significa negare che simili cose possono succedere”.
Da parole come queste, è evidente che Veleno solleva questioni morali estremamente delicate e complicate. Oltre ad aver riportato l’attenzione generale su un caso pazzesco, penso che abbia centrato pienamente un obiettivo: parla di terrore del quotidiano e suggerisce che esso, in varie e insondabili forme, si nasconde ovunque, anche nel disagio di un bambino incolpevole.

Inoltre, non banalmente, Veleno affronta in forma indiretta il tema della mediazione del mezzo documentaristico .
Con le testimonianze pro e contro la tesi di Trincia, esposte con (pur sempre apparente) neutralità, si ripropone, qui, il valore e il limite del documentario cinetelevisivo: la realtà è filtrata dal mezzo e da un canovaccio (la forma-intervista) e, quindi, essa può essere deformata a beneficio di una delle parti (o di nessuna di esse!).

Posto che, sulla base di quanto ho visto e letto, mi senta propensa a condividere le intuizioni (non solo di Trincia, ma anche di avvocati, accusati, ecc.) e a considerare incontrovertibili le evidenze prodotte dalle famiglie a cui sono stati tolti i bambini, continuo a pensare: anch’io (spettatore) posso essere indotto a propendere per una versione o per l’altra. Per l’appunto, basta un buon montaggio. Ma voglio credere che non sia questo il caso e che l’evidenza sia tale.
Sono rassicurata dal fatto cheTrincia e il suo team sembrano fare il possibile per dare voce a tutti i soggetti coinvolti e questa è una scelta davvero degna di nota: prima d’ora, non credo di aver mai visto un prodotto del genere, così equilibrato anche nel contraddittorio (e nelle contraddizioni).

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