Amico fragile / 25 Gennaio 2018 in Fabrizio De André. Principe Libero

Operazione coraggiosa, questa della Rai, del produttore Angelo Barbagallo e del regista Luca Facchini, co-sceneggiatore insieme a Meacci e Serafini della “Banda Caligari”.
Oltre al metodo di distribuzione ibrido (anteprima in sala e, poi, programmazione televisiva, prevista in prima visione per il 13 e 14 febbraio su Rai 1), l’azzardo sta nella scelta della materia manipolata. Amico fragile, De André, ma anche ingombrante. Perché, finora, avvicinarsi alla sua memoria in forma di fiction sembrava avere in sé un che di sacrilego.
Nella sua linearità biografica, infatti, la vita e la musica di Fabrizio De André sono un soggetto complesso, in cui si fondono molteplici sentimenti profondi e difficilmente esplicabili. Su tutti, prevale quello del senso costante di inadeguatezza che il cantautore genovese sembra aver provato in ogni fase della sua vita (alternativamente o in successione, nei confronti del padre, del denaro, della musica, del valore delle parole, delle aspettative e della fiducia in lui riposte dalla famiglia e dal pubblico).

A fronte di una scarsa originalità tecnica (che pure si traduce in un buon ordine formale e nella nitida fotografia di Gogò Bianchi) il film (o la fiction in due parti che dir si voglia) di Facchini ha il suo punto di forza nel cast e, in maniera particolare, nel suo attore protagonista.
A vederlo muoversi (e cantare!) sullo schermo, a bocce ferme (quindi, plauso a chi ha saputo vederci lungo), Luca Marinelli sembra l’unica scelta possibile, ovvia e naturale, per interpretare De André. Non è tanto il mimetismo fisico dell’attore con il cantautore a impressionare, con e senza trucco, quanto la capacità di Marinelli di rappresentare De André, fornendone una versione che, seppur puntellata sul dato biografico, se ne allontana, astraendosi.
La prova di Marinelli non è di tipo documentaristico, non è votata a mostrare il più fedelmente possibile una precisa sequenza di eventi, ma si prefigge di mostrare l’oceano di contraddizioni che si agitava nel cuore e nella mente di De André influenzandone la vita e la produzione artistica.

La prima parte del film mi è parsa quella più efficace, parentesi adolescenziale a parte, perché è quella in cui questi tormenti e afflati intimi si mostrano nitidamente e la prestazione di Marinelli mi è parsa più potente. E, per quel che lo riguarda, poco importa che la sua cadenza sia, a tratti, palesemente romanesca. Paradossalmente, benché filologicamente scorretto, questo dettaglio contribuisce a enucleare De André dal contesto folkloristico, mostrando semplicemente l’eccellenza della sua normalità.
L’operazione mi ha ricordato vagamente quella messa in scena da Liza Johnson con il film Elvis & Nixon (2016), in cui Shannon e Spacey (loro sì) non somigliano particolarmente alle rispettive controparti, ma ne rappresentano adeguatamente le peculiarità.

Gran parte del cast asseconda questa propensione quasi astratta del film, con buoni risultati. In particolare, ho apprezzato la prova di entrambe le protagoniste, la Radonicich (Puny) e la Bellé (Dori Ghezzi), due modelli femminili antagonisti e complementari, e quella di Gianluca Gobbi (Paolo Villaggio).

Resta il fatto che, se considerato come film, Principe libero ha in sé i difetti e i limiti delle consuete fiction italiane. In particolare, a parer mio, un certo didascalismo, soprattutto nella definizione dei contesti ambientali, specie se storici (mi riferisco in particolare alle scenografie, ai costumi e all’uso sterile del vernacolo locale di turno).
Anche l’elevato minutaggio delle due parti assemblate (200 minuti) non è particolarmente invitante e sembra presupporre affezione, se non dedizione, all’argomento (nota a margine: tutte le sale di Genova che lo hanno ospitato hanno registrato il sold-out durante i due giorni di programmazione del film, a dimostrazione -appunto- dell’affetto nei confronti di De André).
Se considerata come una fiction, la co-produzione della Rai è di ottima fattura, ma, a dispetto delle sue sperimentazioni, mi pare rientri appieno nel solco della programmazione seriale della tv nazionale. Immagino, quindi, che avrà un buon successo televisivo, ma (anche se mi auguro ne sia capace) non so se e come potrà contribuire a svecchiare la forma mentis della Rai e del suo pubblico medio. A questo proposito, la recente miniserie La linea verticale (con cui, ne sono consapevole, non condivide né formato, né toni, né argomento) mi pare un progetto più destabilizzante, stimolante e mirato.

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