Recensione su L'alligatore

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serie tvL'alligatore

L’iperuranio della tv generalista / 9 Dicembre 2020 in L'alligatore

La miniserie tv L’Alligatore, co-prodotta da Rai Fiction e Fandango, è una fiction Rai strana assai.
Perché?
1) Parte benissimo, sfruttando bene il concetto di blues, una delle sottotracce dei romanzi di Massimo Carlotto (collaboratore alle sceneggiature) dedicati all’intrigante personaggio dell’Alligatore, un detective sui generis con una dura esperienza in carcere alle spalle. Tutto ne L’alligatore profuma di Delta, a partire dalle acquitrinose terre del Veneto, in cui il Po e le sue storie oscure (una soluzione geo-narrativa già sfruttata da Elio Petri e Pupi Avati, per esempio) odorano di violenza, sfruttamento e uno spleen da confederati. Non mi stupisce che, a partire dalla sigla (immagini e musiche), ci sia un certo richiamo alla prima stagione di True Detective.
2) Cosa che -nell’offerta della tv generalista- sfiora l’iperuranio, le forze dell’ordine non hanno mai un ruolo positivo: picchiano, mentono, coprono, depistano, non c’è un uomo in divisa “pulito”. Dipende dalla materia offerta dai libri di e dall’esperienza personale di Carlotto, ovviamente, e, in questo senso, credo che scegliere Daniele Vicari (DIAZ, 2012) alla regia (di episodi su 6) e alla consulenza artistica non sia stato affatto casuale.
3) Ne L’Alligatore, i finali non sono mai accomodanti e le storie non si concludono quando si esaurisce l’argomento “giallo” dell’episodio. Alcuni personaggi scompaiono all’improvviso, come succede anche nella vita.
Purtroppo, questo meccanismo deficita un po’ il finale, che arriva quasi di corsa, oso dire inaspettatamente.

La serie tv non segue pedissequamente la ricca traccia letteraria (la saga dell’Alligatore è composta da 10 volumi), ma non importa: quel che conta è il mood, l’atmosfera, la caratterizzazione dei personaggi. E tutto questo funziona, anche se non sempre e non al 100%.
In questo senso, ho trovato azzeccata la scelta di Matteo Martari, chiamato a interpretare l’Alligatore, e felicissima quella di Thomas Trabacchi selezionato per il ruolo del milanese, il criminale della vecchia scuola Beniamino Rossini dall’accento caratteristico e con una precisione balistica rinomata che, nonostante il borsello a tracolla e i baffi tinti, non è mai una macchietta. Beniamino è stato il fulcro della mia attenzione, per tutta la serie, e non perché mi facesse divertire. Il Rossini ha un codice criminale da rispettare, trasuda violenza e senso pratico: è vero, benché profumi di stereotipi.
Al contrario, il Castelli di Fausto Maria Sciarappa è un villain intollerabile, artefatto ed estremamente vulnerabile, sia dal punto di vista drammaturgico che interpretativo (le sue battute sono sempre artificiose).

Confesso che non ho colto differenze tra gli episodi diretti da Vicari e quelli con la regia di Emanuele Scaringi (La profezia dell’armadillo, 2018). Merito? Demerito? Non saprei. Diciamo che ritmo, toni e scelte tecniche restano costanti per tutti e 8 gli episodi (ogni storia è divisa in due parti, da 50-60 minuti/cad.).

Prodotto tv interessante e imperfetto. Sì o no? (cit.)

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