Lidia Poët viaggiatrice del tempo / 27 Febbraio 2023 in La legge di Lidia Poët

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Serie tv italiana ambiziosa nei modi e negli intenti che, purtroppo, inciampa in un modello narrativo che, infine, non stupisce e si rivela abbastanza convenzionale.

I primi due episodi de La legge di Lidia Poët lasciano intravedere scenari un po’ diversi dal solito, nel panorama seriale giallo italiano.
Non foss’altro che per la volontà (messa in pratica) di dare un taglio oso dire steampunk alla protagonista: in sostanza, la Lidia Poët interpretata da Matilda De Angelis (liberissima rielaborazione della vera Lidia Poët, avvocata, 1855-1949) è chiaramente una giovane donna contemporanea calata in un contesto storico antecedente al proprio.
Come una viaggiatrice del tempo, quindi, questa Lidia compie azioni che, come dice Doc in Ritorno al futuro, hanno “serie ripercussioni sugli eventi futuri”.
Lidia scandalizza e stupisce e ne è consapevole: l’effetto-sorpresa è una delle sue armi e lo usa per “cambiare le cose” irreversibilmente.

Arrivati alla quarta puntata, però, si inizia ad accusare i limiti di uno schema narrativo che, dopo ben poco tempo, finisce per ripetersi (Lidia si interessa di un caso, discute un po’ con il fratello, si imbatte in uomini maschilisti, amoreggia con Jacopo e/o Andrea, dà due dritte sentimentali alla nipote, risolve il caso, non ottiene il merito che le spetta), senza stupire più.
A poco serve l’avventura che tiene insieme tutti gli episodi, ovvero il segreto del giornalista Jacopo che viene svelato completamente nel finale.
Sullo sfondo, e l’intento è molto interessante, c’è il tentativo di rappresentare la società torinese (e, per estensione, italiana), al volgere del XIX secolo, un periodo di grandi cambiamenti e novità, in ambito sociale e tecnologico.

La figura della Poët funziona esattamente come quello di un detective di Agatha Christie: è sempre nel posto “giusto”, al momento “giusto” (di solito, questo luogo è casa sua, che è una sorta di crocevia di destini) e, come la Jessica Fletcher della tv, ha quello strano superpotere per cui il colpevole di turno le confessa subito le proprie colpe (e, poi, in genere, prova ad ammazzarla, ma sopraggiunge lo sceriffo Tupper… pardon, il fratello Enrico o Jacopo, a sventare il peggio).

Nel complesso, La legge di Lidia Poët è un buon intrattentimento supportato da reparti tecnici ben sfruttati: costumi, scelta delle location, scenografie e musiche (originali e non) sono davvero buoni e, in varie scene, mi pare di aver notato anche un numero non indifferente di comparse sufficientemente ben coordinate.
Interessante il cast di attori principali, all’interno del quale ho apprezzato molto la De Angelis, molto generosa nella caratterizzazione di una protagonista che, per fortuna, dimostra con le azioni e non solo a parole la propria emancipazione, e Pier Luigi Pasino, davvero adeguato per il ruolo di Enrico, che mi pare abbia sviluppato una bella intesa con la De Angelis. Confesso che aspettavo le scene in cui compaiono entrambi, perché, nei ruoli di sorella e fratello, duettano bene insieme.
Purtroppo, non mi ha entusiasmato la resa artistica di Eduardo Scarpetta, molto apprezzato in altre occasioni.
Mi ha lasciato interdetta, se non infastidita, il continuo parlare a bassa voce di tutti gli attori e alcune strane pause nel pronunciare le battute: temo che l’effetto ricercato sia una sorta di affettata naturalezza, che può anche starci, eh, ma il risultato -purtroppo- è la scarsa intellegibilità dei dialoghi.

Indecisa fra 5 e 6 stelline, assegno la sufficienza perché, in fin dei conti, ho apprezzato il (solito) coraggio di Matteo Rovere (qui, produttore e co-regista) di sperimentare strade poco conosciute.

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