Sviscerare, sviscerare, sviscerare / 20 Giugno 2023 in Fleishman a pezzi

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

I primi 2-3 episodi mi sono piaciuti molto. Ma anche nel bel mezzo del racconto e sul finale ho trovato tanti elementi positivi.
Procedendo sulla distanza, però, ho iniziato a pensare perché di Fleishman a pezzi non sia stato fatto un film di un paio d’ore, invece che una miniserie di ben 8 puntate (durata: circa 1 ora ciascuna).
Non ho idea se anche il libro da cui è tratta questa produzione televisiva sia strutturato nella stessa maniera. Ma, a un certo punto, mi sono sentita un po’ aggredita ai fianchi dalla continua analisi minuziosa di ogni situazione, “presente” e pregressa, e di ogni personaggio.
L’uso del progressivo disvelamento, in sé, non mi è dispiaciuto: sappiamo bene che una storia è composta da molteplici punti di vista e, qui, l’effetto Rashomon è – in modo discreto – alla base del meccanismo narrativo complessivo. Però, in questa serie tv, ogni singola azione viene sviscerata fino all’osso, alla ricerca di tutti i perché e percóme, come se gli autori (non i personaggi) fossero bruciati dal sacro fuoco del “non lasciamo niente di irrisolto”.
Ok, l’impianto è smaccatamente psicanalitico (anzi: psicanalitico con declinazioni alleniane, per tanti motivi, a partire dal fatto che tutto si svolge a Manhattan). Però, il livello di autoanalisi e studio della coscienza di questi personaggi ha raggiunto vette incredibili, quasi quelle che mi è capitato di trovare solo nei romanzi di Philip Roth che ho letto finora (tra l’altro, il caso ha voluto che, quando mi sono dedicata a guardare la serie tv su Disney+, avessi terminato da poco tempo proprio un libro di Roth, La macchia umana, tra i più psico-anatomici in cui mi si sono imbattuta).

Fleishman (Jesse Eisenberg) è un brav’uomo di 40 anni, dedito al lavoro e alla famiglia che viene travolto dal crollo emotivo della moglie (Claire Danes). La sua storia viene raccontata da un’amica di vecchissima data (Lizzy Caplan) che, oltre a essere uno dei protagonisti dell’azione, in tempo reale, è anche la voce onnisciente e onnipresente della miniserie.
Allora, di chi è l’analisi terapeutica? Di Fleishmann o dell’amica? (stratagemma narrativo di impianto letterario che, guarda caso, ricorre spesso in Roth) E cosa c’è di vero e cosa c’è di inventato, dato che lei è una scrittrice? Lo spettatore deve fare assolutamente fede a quel che lei dice? (detto tra noi: io l’ho fatto)

Nel complesso, la serie è molto buona, anche se ne avrei preferito una messa in scena in forma più condensata, e gli attori sono decisamente in bolla.

Alla fine, comparando la trama della serie con la realtà-media che mi/ci/vi circonda, dovrebbe sorgere (e, in me, ve lo dico, è sorta) una domanda: perché questa generazione di quarantenni (quindi, diciamo, i quarantenni della Generazione X) è tanto più “sensibile”, tremebonda e “problematica” di tutte quelle precedenti? Che traumi/(dis)educazioni/mancanze ha subìto, per essere afflitta dal male di “chi sono io, qual è il mio posto nel mondo?”. Sono i figli di mezzo, quelli nati una generazione dopo la Seconda Guerra Mondiale e una prima della rivoluzione digitale, e questo vorrà pur dire qualcosa.
Fino al momento del crollo della moglie, Fleishman non sembra essersi mai posto particolari problemi esistenziali: è un uomo d’altri tempi, una specie di James Stewart calato nell’epoca degli smartphone e della realtà aumentata, un ragazzo che ha sempre avuto chiaro, senza troppi sofismi, cosa avrebbe fatto nella vita e cosa ne avrebbe fatto. Aveva i mezzi e le capacità per fare ciò che aveva intenzione di fare, non ha mai chiesto di più e ha vissuto sereno.
Finché non ha incontrato ed è stato sopraffatto da una donna votata alle complicazioni che, con i suoi leciti traumi e le sue insicurezze, gli ha mostrato le asperità della ricerca dell’estremo benessere materiale ed emotivo.

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