Recensione su Deadwood

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Terra indiana / 24 Luglio 2013 in Deadwood

Il western sta scalando le sue marce da un pezzo, ormai. L’epopea si è sgonfiata, la frontiera si è avvicinata. E’ finito perfino il periodo del western crepuscolare, la luce si è spenta.
Nel buio di un genere dal gloriosissimo passato, è rimasto tuttavia acceso per qualche tempo l’alone luminoso di una singolarissima stella del firmamento western. Uscito dal cinema con il clangore dei suoi speroni, il genere si è accasato infatti per tre anni in una nicchia pregiata, grazie alla formula magica delle Tv-series ormai in grado di rivitalizzare perfino i più catatonici tra i morti viventi (The Walking Dead insegna).
Diciamo che questo Deadwood non è propriamente un western, o per lo meno non è assolutamente un western canonico. E’ costretto nel corsetto del realismo storico, è contratto nei confini angusti di una modesta cittadina, concedendosi rarissime uscite al trotto fuori porta. Dimenticatevi gli scenari sconfinati del Far West, quelli sono arrotolati in soffitta.
Facciamo un parallelo con la storia dell’Odissea. Avete presente, no? Omero è epica a tutto spiano, orizzonti infiniti e infinite battaglie, eroi immortali. Ecco, poi nel Novecento capita un certo signor James Joyce che afferra l’Epica per le orecchie, la liofilizza in una giornata di un modesto signore di Dublino, la sporca nell’antieroismo più squallido. Questo ‘effetto Ulisse’ si fa sentire, qui in Deadwood.
Niente grandi eroi. Si muore e ci si ammala molto facilmente. Il confine tra bene e male, va beh, quello è sparigliato abbastanza (anche se gli americani, per quanti sforzi facciano, faticano sempre a sfondare il cancelletto della morale Disney). Si beve un casino, e se si beccano un paio di ca**otti i segnacci restano addosso per più di qualche puntata. Facce ingiallite dal pus, violacee, insomma dai, avete afferrato il concetto.
La serie ha suscitato abbastanza scalpore per il linguaggio profano (bestemmie a gogò, volgarità a nastro); essendo poi ambientata per buona parte tra le pareti di un bordello, potrete immaginare il rigore morale. Ad ogni modo, c’è un bell’ umorismo di fondo, e nella fanghiglia c’è pure qualche lampo fugace di bontà d’animo. Legalità no, quella non aspettatevela troppo. Deadwood è ‘terra indiana’, un territorio franco ambito e conteso da Dakota e Montana per l’oro, è un piccolo feudo sotto le grinfie di un paio di signorotti (brutti ceffi) locali. Al Swearengen, padrone del Gem Saloon, e Cy Tolliver, padrone del Bella Union; magnaccia, intrallazzoni, violenti, bastardi, astuti. Oh, chiariamoci, Tolliver è cazzutissimo ma tra i due non c’è storia; Al Swearengen, un monumentale Ian Mc Shane, spacca di brutto. E’ il personaggione della serie, una canaglia che a tratti appare quasi amabile, una carogna profumata e inamidata. Strepitoso.
C’è da dire che Swearengen e Tolliver subiscono – alla terza stagione – l’entrata in scena del megabastardo George Hearst (grande, grandissimo Gerald McRaney, indimenticabile Rick Simon della TV). Un ridimensionamento finale dei due villain che probabilmente non ha giovato molto alla serie; si aggiunga che Hearst è un personaggio storico, realmente esistito, e lo spettatore non poteva certo aspettarsi di vederlo eliminato con una pallottola in fronte.
E poi c’è tutto uno stuolo di attori coi loro personaggi, chi più interessante chi meno; i miei top characters – oltre a Swearengen – sono la prostituta Trixie (brava e bella Paula Malcomson, tra i vari ruoli in passato era una delle due sorelline bionde uccise ne Il miglio verde), il buon cercatore d’oro Ellsworth (Jim Beaver, dal curriculum infinito nelle tv-series), l’esilarante Wu (Keone Young, anche lui veterano della TV) e la gelidissima Miss Isringhausen (Sarah Paulson, vagamente somigliante a Julia Roberts, di una bellezza inquietante). Piace meno il rude ‘buono’ di turno, Seth Bullock con i suoi occhi da invasato (Timothy Olyphant, poi rilanciato dalla HBO in Justified). Splendido cameo per Keith Carradine e il suo imperturbabile Wild Bill Hickok; la sempre sbronza Calamity Jane (Robin Weigert) è un po’ troppo stereotipata. Doverosa menzione per gli esilaranti caratteristi di turno, il misterioso Richardson (Ralph Richeson) e il fumettistico Con Stapleton (Peter Jason) su tutti.
Nel 2006 La HBO decise di calare la mannaia sulla serie dopo la terza stagione. Le ragioni, boh, vai a capirle. Una cosa è certa, piaceva un sacco; figura tutt’oggi quasi sempre nelle varie top-lists delle serie-Tv più belle di tutti i tempi. “Cocksuckers!“, direbbe il buon Wu.

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