Recensione su American Crime Story

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Compendio di sociologia / 1 Febbraio 2017 in American Crime Story

Prima stagione
Accingendomi a vedere la prima stagione autoconclusiva di American Crime Story, la nuova serie tv antologica creata da Ryan Murphy (American Horror Story), non avevo rispolverato in alcuna maniera l’argomento trattato e, nonostante siano trascorsi più di 20 anni dai fatti e, all’epoca, fossi solo una ragazzina, quando mi sono decisa a vedere questo telefilm ricordavo ancora benissimo l’eco mediatico relativo all’inseguimento in auto di O.J. Simpson e al relativo processo, trattati ampiamente anche dai tg italiani. Potenza dei media. E pensare che, ai tempi, senza il web, le notizie non avevano la stessa diffusione “istantanea” e lo stesso impatto di oggi… Eppure, anche in Italia assistemmo in leggera differita al famoso inseguimento. Chissà, se si fosse svolto tutto oggi!

La vicenda mi colpì particolarmente, perché ricordavo di aver visto recitare Simpson nella trilogia di Una pallottola spuntata e rammento bene che non riuscivo a capire come un campione sportivo che si era prestato a recitare in una serie di film demenziali potesse aver compiuto l’omicidio di cui era accusato. Beata innocenza.
Diciamo che, però e non a caso, uno degli assunti della difesa era proprio questo: insistere sull’incapacità di Simpson di essere un assassino, perché campione, simbolo, icona, a prescindere dal fatto che avesse commesso o meno l’omicidio della ex-moglie Nicole e di un amico. L’altro elemento-chiave che, notoriamente, ha giocato in favore della sua liberazione è stato quello razziale.
The People v. O.J. Simpson è un prodotto “furbo”, ruffiano, se vogliamo, incentrato su quel senso di pruderie che percorre anche gli altri lavori di Murphy, da Nip & Tuck in poi, ma funziona bene anche per questo, perché, all’interno di una cornice molto glamour, riesce a mettere in scena le principali contraddizioni e implicazioni sociali che un “semplice” caso di omicidio è riuscito a sollevare, riuscendo al contempo a concentrare l’attenzione dello spettatore (non necessariamente statunitense, come nel mio caso) sulle tensioni che continuano ad attraversare ancora oggi la società americana (e, per estensione, globale) e concentrandosi sull’importanza che l’ “apparenza” riveste nell’ambito della formulazione di un giudizio.

La prima stagione di American Crime Story inizia come un crime, appunto, ma diventa presto uno stimolante, seppur semplificato, compendio di sociologia e antropologia, lasciando consapevolmente da parte le indagini sull’omicidio, proprio come è accaduto nella realtà, e travalicando anche il genere legal tradizionale verso cui, in alternativa, pare tendere.
Benché il numero degli episodi possa “spaventare” (la stagione è composta da 10 puntate della durata di circa un’ora ciascuna e la prima domanda che sovviene è: “Come potranno tenere desta l’attenzione del pubblico, riproponendo un “semplice” processo, di cui, tra l’altro, si conosce l’esito?”), la stagione scorre senza involuzioni di sorta, sfruttando un efficace meccanismo che le consente di mantenere costante il ritmo narrativo: ogni episodio racconta come uno o più personaggi affrontano la situazione, mostrando lo stress e i “dietro le quinte” di un gioco al massacro mediatico che tutto sembra trattare, tranne la ricerca della verità oggettiva.

Bravo il cast, gigiona la regia, con virtuosismi insistiti in taluni movimenti di macchina, evidente (e giustificato) l’alto budget impiegato per ottenere una buona ricostruzione d’epoca.

Spero che la seconda e la terza stagione, incentrate, rispettivamente sull’uragano Katrina (2005) e sull’omicidio Versace (1997), si attestino sulla stessa qualità narrativa, pungolando le capacità di analisi e di riflessione del pubblico.

Voto prima stagione: 7 stelline e 1/2

Seconda stagione
[Aggiornamento del 16 dicembre 2018]
L’omicidio di Gianni Versace mi ha appassionato come, negli ultimi tempi, poche altre produzioni televisive sono state in grado di fare.
La struttura narrativa della seconda stagione autoconclusiva di American Crime Story mi ha ricordato quella del film Memento di Christopher Nolan: si parte dalla fine e si procede a ritroso, in un arco di tempo che, dal 1998, torna indietro fino al 1980.
L’assassinio dello stilista italiano è il perno della storia, ma, anche alla luce dei misteri che, a vent’anni dai fatti, ancora la caratterizzano, la miniserie non si concentra sul noto fatto di cronaca in maniera esclusiva. In maniera piuttosto spiazzante, sposta l’attenzione da Versace al suo killer, Andrew Cunanan (l’ottimo Darren Criss), concentrandosi sulle premesse della vicenda e tentando di definire le caratteristiche psicologiche del killer.

Come nel caso di The People v. O.J. Simpson, L’omicidio di Gianni Versace ha delle volute e calcolatissime zone d’ombra legate alla mancata definizione delle precise dinamiche del delitto e di alcuni dettagli a esso legati, suggerisce delle ipotesi, costruisce un contesto (disturbante ma fascinoso e, qui più che mai, patinato) in cui accogliere un pubblico curioso, esigente e -perché no?- voyeur.
Anche in questo caso, mamma mia, ricord(av)o esattamente il pomeriggio di metà estate in cui la notizia della morte di Versace ha fatto irruzione nel palinsesto televisivo nazionale. Eppure, fino a oggi non sapevo nulla del (serial) killer dello stilista.

Anche questa volta, la ricostruzione d’ambiente mi è piaciuta molto (anche se le ambientazioni italiane, dalla scuola elementare calabrese agli interni del duomo di Milano, mi sono sembrate abbastanza improbabili).

Oltre a quella di Criss, ho apprezzato le prove di Édgar Ramírez (Gianni Versace) e un dimagritissimo Max Greenfield (Ronnie). Non mi hanno convinta, invece, le interpretazioni di Penélope Cruz (Donatella Versace) e Ricky Martin (Antonio D’Amico), forse anche a causa di caratterizzazioni troppo didascaliche.

Voto seconda stagione: 8 stelline

8 commenti

  1. scimmiadigiada / 9 Febbraio 2017

    sottoscrivo tutto, forse solo in leggero disaccordo sul mezzo punto in difetto: avrei dato l’otto, ho molto apprezzata questa serie. ammetto però che i continui turbocarrelli rotanti siano, alla lunga, eccessivi.

  2. Stefania / 20 Marzo 2017

    @scimmiadigiada: i “turbocarrelli rotanti”, proprio loro! 😀

  3. Noloter / 7 Giugno 2017

    @stefania vorrei fare una domanda se possibile, più che altro per condividere un mio dubbio con chi ha visto la serie. Premetto di star parlando da “ignorante” nel senso che ho visto questo “People v O.J. Simpson” senza conoscere praticamente nulla della storia (ammetto che quasi stavo per dubitare di ricordare bene l’esito del processo, verso la fine, e magari questo è un complimento per chi ha realizzato il prodotto), senza documentarmi preventivamente, insomma del tutto all’oscuro dei retroscena, dei commenti, delle analisi e dei dibattiti di allora e/o più recenti; non entro nel merito del processo, parlo solo della serie in quanto tale, solo di quello che è stato mostrato dalla sceneggiatura, prendendolo come un prodotto narrativo e basta. A visione ultimata ho avuto l’impressione, da come è stato rappresentato, che in fin dei conti l’amico Robert Kardashian avesse la convinzione che O.J. fosse davvero colpevole (parlo non solo di alcune brevi sequenze sparse negli episodi ma soprattutto di quella dell’ultimo episodio, dopo la lettura della sentenza) e che in un certo modo neppure i suoi avvocati lo credessero del tutto pulito visto che l’hanno subito “buttata in politica” per così dire. E’ solo una mia impressione o l’hai notato anche te?

    • Stefania / 7 Giugno 2017

      @noloter: come te, non so nel dettaglio se, nella realtà, amici e avvocati avessero davvero dei dubbi , ma immagino proprio di sì.
      Secondo me, dalla serie tv emerge che ne abbiano, ma li affrontano in maniera diversa. A parer mio, in questo costante gioco delle ambiguità, la serie ha uno sviluppo eccellente: non dà alcuna certezza allo spettatore, pur facendogli capire che vorrebbe tirare delle somme soggettive, se non altro per un senso di completezza, una specie di “piacere narrativo”.
      Il personaggio-Kardashian è molto combattuto (a differenza della ex-moglie, che reputa subito O.J. colpevole): pur avendo sentore della colpevolezza dell’accusato, non se la sente di abbandonare quello che, fino a poco prima, era un caro amico e nega, almeno pubblicamente, quello che, stando alle prove, sembra davvero molto evidente. È diviso fra rabbia e incredulità: in questo senso, è un personaggio molto umano, credibile.
      Gli avvocati di O.J. sono degli squali 😀 Non sembrano davvero interessati a sapere se il cliente è innocente o no: sembrano concentrati solo sulla risonanza mediatica del processo e delle parti (quindi, essi stessi) coinvolte. Sono portata a credere che lo reputassero colpevole.
      Durante la visione della serie tv (cosa che mi succede ogni volta che, in tv, vedo intervistati avvocati in genere), mi sono domandata a più riprese quanto pelo sullo stomaco (oltre alla fama e ai soldi che potrebbero derivare dal processo) occorra per difendere l’indifendibile.

      • Noloter / 7 Giugno 2017

        Grazie della risposta 😉 Rob Kardashian è quello che più mi ha colpito, come hai notato anche te è l’unico a farsi prendere da dubbi “etici” (per così dire) di fronte al dilemma con cui si trova a fare i conti. Sono d’accordo con te sul fatto che sia, giustamente, il più credibile tra i personaggi. Perchè io ne parlo come una semplice fiction, rifiuto l’idea di farmi un’opinione su di un caso reale basandomi solo sulla rappresentazione distorta di una serie tv (a sua volta “based on” un libro), un’idea me la sono fatta solo su quello che la sceneggiatura mi ha trasmesso.
        Però non sono del tutto d’accordo con te sul fatto che la serie non dia certezze allo spettatore. All’inizio la pensavo come te, devo dire, e credevo che il punto di vista della serie fosse quello trasmesso dalle parole della presidente di giuria durante la camera di consiglio, una che crede possibilissimo che O.J. sia colpevole ma si chiede se davvero lo sia oltre ogni ragionevole dubbio proprio come è giusto fare di fronte a sentenze di condanna così gravi. Ma poi ci ho ripensato e a mio avviso, se non le dà delle certezze, quanto meno tenta di darle perchè io ho colto come un sottotesto lungo tutta la narrazione, una ideale voce che sullo sfondo sussurra “dai che è stato lui”, anche perchè tra l’altro l’accusa è presentata come “i buoni” e la difesa come “i cattivi” (sono gli avvocati di O.J. quelli che ricorrono a tutti i sotterfugi e i colpi bassi, pare, mentre l’accusa si attiene alle regole e cerca di restare nel merito del caso), volendo usare una grossolana divisione dicotomica di ruoli giusto per intenderci.
        Invece concordo con te sul giudizio circa il pool di avvocati di O.J., cercano solo l’ennesimo successo da piazzare nella bacheca dei trofei, ognuno per un proprio tornaconto personale che va ben al di là del processo effettivo, tutto comunque sulla pelle di uomo che a prescindere da come la si pensi a riguardo è in bilico tra la libertà e la prigione, tra la “vita” e la “morte” (anche se poi è questo che ci si aspetta da un avvocato: non esprimere giudizi morali ma tutelare l’assistito sempre e comunque). Forse proprio Cochran è il personaggio che ne esce peggio, uno che all’inizio dà O.J. per spacciato parlandone da fuori e che poi, chiamato in causa, sfrutta la situazione per una propria battaglia politica legittima o meno che sia (cosa che, nell’ultimo episodio, arriva proprio ad ammettere di fatto quando invita la giuria ad esprimersi per attestare un principio, per colpire il LAPD, per dare un messaggio all’America).

        • Stefania / 8 Giugno 2017

          @noloter: in realtà, direi che sulla “posizione” della serie siamo d’accordo 🙂 (rileggendo quel che ho scritto, mi rendo conto che non mi sono spiegata bene, pardon) Ho scritto: “(la serie) non dà alcuna certezza allo spettatore, pur facendogli capire che vorrebbe tirare delle somme soggettive”, e con questo intendevo dire che si intuisce abbastanza bene che (non troppo “correttamente”) la serie tv suggerisce che O.J. è colpevole.
          Tornando ai comportamenti dei protagonisti, quando dico che questa miniserie è un compendio di sociologia e antropologia, intendo dire proprio che questo processo non è stato solo un atto legale, ma soprattutto una passerella di personaggi che hanno approfittato dell’occasione per portare alla ribalta sé stessi e alcune istanze di loro interesse. La pervicacia con cui lo fanno è impressionante (Cochran, che citi, ne è un fulgido esempio) e stupisce quanto l’apparenza influisca sulla questione (pensa solo tutte le chiacchiere sui capelli di Marcia Clark! 😀 ) . Secondo me, il cortocircuito innescato è davvero molto “interessante”.

          • Noloter / 8 Giugno 2017

            Sì, ed è possibilissimo anche che leggendo forse senza la dovuta cura quello che avevi scritto all’inizio non mi sia reso conto di star dicendo entrambi la stessa roba. Ora è tutto più chiaro 🙂
            Un altro elemento che mi lascia perplesso è che la serie arrivi a sostenere una versione discordante con la sentenza ufficiale (ma allora se si può contestare questa sentenza si possono contestare tutte, non ci sono più certezze neppure nel sistema giuridico – questo il messaggio indirizzato al pubblico?), e anche che lasci trapelare l’idea che il fattore razziale sia stato determinante, e questo lo fa proprio in un periodo storico come quello attuale di un’America formalmente politically correct ma sempre più divisa tra suscettibilissime comunità wasp, latinos, afro, asian, ecc; perchè qui sembra quasi che la rappresentazione mostri una comunità che fa “spirito di corpo”, che fa “blocco comune” e salva “uno di loro” senza sé e senza ma a prescindere dal merito, solo perchè è un “fratello” (e questo lo dico solo in base alla sceneggiatura, ripeto, non mi riferisco al caso reale). Lo trovo un insolito azzardo, sia appunto per come funzionano i media oggigiorno, sia perchè mi ritrovo a chiedermi come possano aver preso questa serie quelle stesse persone che allora festeggiavano in strada dinanzi ai maxischermi l’assoluzione di O.J (e qui non posso, invece, non fare riferimento alla realtà visto che per quanto fiction la serie è comunque basata su di un caso reale che, per quel che ho capito, è stato particolarmente sentito all’epoca). Ma mi rendo conto che questo è un discorso che forse va al di là del prodotto televisivo in sé (e c’è da dire che, per quanto mi riguarda, ignoro quale sia l’opinione attualmente diffusa in USA sul caso O.J Simpson, quindi per quanto ne so può anche darsi che gli sceneggiatori abbiano mostrato la versione più in linea con l’opinione pubblica del momento) quindi magari non è questa la sede per parlarne.

          • Stefania / 8 Giugno 2017

            @noloter: secondo me, sollevi questioni molto interessanti che, in realtà, sarebbe bello poter affrontare anche qui, se solo ne avessimo gli strumenti, diciamo. Mi piacerebbe poterne parlare con maggiore cognizione di causa: purtroppo, come dici tu, anche a me mancano gli elementi per interpretare meglio alcuni dettagli e, soprattutto, la reale risonanza della vicenda all’interno delle diverse parti della comunità americana, quella afroamericana in primis. Dalla miniserie, come sottolinei, emerge forte questo dettaglio dell’innocenza di O.J. stabilita a priori dalla sua comunità. E, se non ricordo male, questa faccenda è sottolineata in maniera emblematica dal fatto che c’è anche chi (l’assistente della Clark, forse? Mi pare lo dica durante un barbecue di famiglia, ma forse mi sbaglio) dice che, raggiunto il successo, O.J. ha fatto di tutto per “non essere nero”: non ha mai fatto niente per la comunità, per i suoi diritti, ha assunto atteggiamenti “da bianco”, ecc.
            Comunque, parlando del prodotto seriale in sé, ho l’impressione che il suo creatore, Ryan Murphy, sia un gran furbone: la scelta dell’argomento non mi sembra per niente casuale, perché è come se avesse deciso di cavalcare l’onda recrudescente dell’intolleranza razziale. Non so se i suoi fini travalichino il puro interesse commerciale, se, cioè, Murphy voglia contribuire a stimolare un dibattito sull’argomento. Certo è che (e questo scambio di riflessioni ne è una piccola prova) ha suscitato parecchio interesse e ha portato il pubblico a farsi delle domande affatto banali.
            Anche il quesito che poni tu (la contestabilità delle sentenze) mi sembra decisamente interessante: ti confesso che è una cosa a cui non avevo affatto pensato.

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