Recensione su Suburbicon, Dove tutto è come sembra

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I diabolici / 9 Dicembre 2017 in Suburbicon, Dove tutto è come sembra

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Sette stelline e mezza)

Con il suo sesto film da regista, Clooney conferma che le ricostruzioni storiche, usate in special modo per spiegare il presente, sono proprio nelle sue corde.
Pur non citandoli esplicitamente, il film Suburbicon richiama eventi realmente accaduti negli Stati Uniti negli anni Cinquanta e il buon George li rispolvera per ricordare che “niente cambia, mentre tutto cambia già” (cit.).

Levittown era il nome di una serie di ordinati sobborghi molto simili a Suburbicon costruiti in vari Stati americani e in Porto Rico fra la seconda metà degli anni Quaranta e il 1963. Pensati per accogliere i veterani della Seconda Guerra Mondiale, essi erano destinati esclusivamente a persone “caucasiche”. A Levittown, in Pennsylvania, nell’agosto del ’57 (il film si svolge un anno dopo), la prima famiglia di afroamericani trasferitasi in città venne fatta oggetto di pesanti discriminazioni, minacce e aggressioni fisiche.

Prendendo a pretesto un fatto di cronaca e un contesto realmente esistito, la sceneggiatura firmata da Clooney, Grant Heslov e i Fratelli Coen mischia il delitto (im)perfetto à la Hitchcock, i perdenti pasticcioni coeniani (appunto) e le diavolerie coniugali di Clouzot per mettere ulteriormente il dito nella piaga di un’America fastidiosamente ipocrita. Addossando i mali del sobborgo all’arrivo della famiglia di neri (più o meno, la cantilena è: “Qui non era mai successo niente di brutto, prima che…”), i suburbiconiani giustificano sia il fatto di non vedere ciò che sanno, sia la strenua e perniciosa abitudine a conservare stupide apparenze. In questo senso, la falsa innocenza di Maggie (un’adeguata Julianne Moore) è un ottimo paradigma.

Una fotografia gradevolmente limpida, una bella ricostruzione d’ambiente (i costumi!) e campi strettissimi sono i complementi perfetti a una riuscita commedia nerissima.
Bravi anche gli interpreti e menzione d’onore per il bambino, Noah Jupe, che modula con matura padronanza emozioni ed espressioni del viso (in particolare, mi ha colpito la sua espressione perplessa e dubitosa nei confronti di padre e zia).

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