Recensione su È solo la fine del mondo

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L’amore è una bomba a orologeria / 9 Dicembre 2016 in È solo la fine del mondo

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

Il Tempo e l’Amore sono i pilastri di una storia intima ma gridata che Dolan gestisce con impressionante e puntuale maturità (a proposito di tempo).
Lo spunto narrativo è offerto da una piéce teatrale che in Francia pare sia amatissima, firmata da un autore considerato di culto di nome Jean-Luc Lagarce, scomparso neppure quarantenne nel ’95, vittima dell’AIDS.
Non ho idea di come sia il testo originale e di come, finora, sia stato messo in scena a teatro, ma è comprensibile come possa aver attratto Dolan: esso, infatti, contiene tutti gli elementi che, finora, sono ricorsi nel suo cinema. Il rapporto e il raffronto con la famiglia, la scoperta e la maturazione della propria personalità, il senso della domesticità e del nido famigliare, il sentore dell’ineluttabilità, l’incomunicabilità dei sentimenti, l’affetto che trasmuta in forme antitetiche come l’insofferenza e, nelle forme più estreme, la violenza verbale o psicologica: la materia narrativa di Lagarce è terreno matematicamente fertile per la poetica di Dolan.

In Juste la fin du monde, vengono mostrati per filo e per segno i conflitti esacerbati di una famiglia qualunque: il ritorno a casa di uno dei suoi membri, allontanatosi da diversi anni dai parenti non tanto in senso geografico quanto psicologico, è il momento giusto per riversargli e riversarsi addosso livore, frustrazioni, smarrimenti, stupore, disprezzo e, appunto, amore, che, a conti fatti, è una vera e propria bomba a orologeria programmata sul suo ritorno.
Dolan costruisce un quadro d’ambiente differente per ogni incontro-scontro dei vari parenti con il protagonista, Louis (un Gaspard Ulliel efficacissimo, coi suoi sorrisi malinconici, quella curiosa cicatrice sulla guancia, a metà strada tra una fossetta e il solco lasciato da una lacrima preistorica): fin dal suo ingresso in casa, egli è sommerso da sollecitazioni emotive che, pur presentandosi sotto forme diverse, hanno una sola radice, l’amore per lui.
Nella rappresentazione dei singoli confronti con il figliol prodigo, Dolan inserisce la descrizione del carattere di ciascun personaggio: la “faticosa” cognata Catherine, apparentemente incapace di esprimere un concetto senza incartarsi e, invece, acuta e paziente osservatrice; l’inquieta sorella Suzanne, bambina cresciuta istericamente incapace ancora adesso “che ha la patente” di comprendere le scelte degli adulti; la ciarliera e almodovariana madre che si riempie gli occhi della bellezza del figlio; il fratello polemico e autodistruttivo, ferito dal tradimento (l’allontanamento) di Louis, con cui, lo intuiamo da alcuni minuscoli dettagli, aveva, un tempo (ah, sempre lui…), un rapporto di complicità profonda. Louis ha a che fare con essi in ore diverse della giornata, in spazi differenti: con Catherine, cognata finora ignota, il salotto, cioè l’ambiente di rappresentanza; con la madre, donna senza nome, uno sgabuzzino, un recesso architettonico della casa che potrebbe corrispondere alla psiche del protagonista e al rapporto edipico con la donna (non è un caso che Louis si abbandoni ai ricordi legati alla sua adolescenza in un altro sgabuzzino); con la sorella, la camera della ragazza, il luogo più intimo in cui potesse essere condotto; con il fratello, l’automobile, un mezzo con cui andare via o con cui girare in tondo nelle strade di una cittadina senza alcun aspetto.
Gran parte dei dialoghi tra i personaggi si svolge grazie ad un sapiente uso degli sguardi: Dolan ha intercettato una serie di attori (la Cotillard, la Seydoux, Cassel, la Baye, ancora Ullil, ovviamente, tutti bravissimi) in grado di esprimere una vasta gamma di emozioni con occhi stupendi, grandi, intensi. I frequentissimi primi piani, intesi a scandagliare le peculiarità dei loro volti, vengono calamitati da lunghe ciglia su globi traboccanti emotività palpabile.

Nell’arco delle poche ore che il protagonista trascorre con la sua agitata, anzi, emozionata famiglia, il suo aspetto cambia: al suo arrivo, Louis è bellissimo, nonostante il viaggio in aereo e il caldo che gli altri dicono di patire sembra fresco, profumato. Con il trascorrere del tempo, si disfa, letteralmente: complice la malattia (indefinita) che lo attanaglia, l’afa e la pressione delle emozioni, inizia a sudare, a mostrare le occhiaie e un incarnato livido. Il tempo è contro di lui, il tempo lo consuma, lo spaventa, lo irretisce. Il tempo, il suo, ha una fine precisa.
La sequenza conclusiva, tra l’ultima disperata esplosione di rabbia del fratello e l’ultimo volo di un uccellino spaventato dall’aver smarrito la sicurezza nei confronti del concetto di tempo, inteso immutabile nel suo scorrere, torce l’anima.

7 commenti

  1. Sgannix / 9 Dicembre 2016

    Film splendido. Personaggi così reali e complessi sono una rarità, vanno sicuramente apprezzati.
    A questo punto credo sia proprio una qualità di Dolan, perché anche in “Mommy” i personaggi erano così meravigliosamente umani. Devo recuperare assolutamente gli altri suoi film. 🙂

    • Stefania / 10 Dicembre 2016

      @sgannix: basandomi su quel che ho visto finora, secondo me Dolan è un vero portento: recupera, recupera! La Movies Inspired ha distribuito recentemente un cofanetto (dvd e blu ray) con tutti i suoi film pre-Mommy (lo trovi anche su Amazon http://amzn.to/2gLpfn1).

  2. Isabelle Anzalone / 8 Dicembre 2017

    Io l’ho visto la prima volta in lingua originale (sono di madrelingua francese), la seconda in lingua italiana doppiato, (l’ho fatto di proposito) e come sospettavo le parole in italiano sono molto più sprezzanti verso il mondo gay e gli omosessuali. L’Italia è un Paese estremamente omofobo. Lo sappiamo.

    • Stefania / 8 Dicembre 2017

      @isabelle_anzalone: confesso che non ho idea di quali termini usino i francesi per parlare di gay e omosessuali. Nello specifico, comunque, non ricordo quali espressioni siano state usate nella versione italiana, per trattare l’argomento.

  3. Isabelle Anzalone / 8 Dicembre 2017

    Per esempio quando Suzanne( Léa Seydoux) all’inizio del film si rivolge alla madre dicendole che si era truccata come “un trans”, secondo me è molto dispregiativo, mentre in francese dice “travelot” un uomo che si traveste da donna , una drag queen. Forse per i più sarà una differenza minima ma per me no. Una transessuale è un’altra cosa.

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