Recensione su Chiamami col tuo nome

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Odi et amo / 29 Gennaio 2018 in Chiamami col tuo nome

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

(Vaneggiamenti sparsi)

Con Chiamami col tuo nome, mi pare che Guadagnino abbia decisamente affinato le sue qualità narrative.
Se pure la sceneggiatura è a firma dell’illustre collega James Ivory, che a sua volta ha adattato un romanzo (omonimo) di André Aciman, con questo lavoro Guadagnino dimostra di aver raggiunto un equilibrio fra racconto e messinscena: è riuscito a dosare gusto formale, ricercatezza estetica, citazioni nobili e ritmo della narrazione con maturità ed eleganza.
Il suo lavoro precedente, A Bigger Splash, benché molto interessante e originale, mostrava -in questo senso- una tale discontinuità da farmi temere un analogo esito incerto.
Invece, questo è un film compatto, completo, omogeneo, che -dall’inizio alla fine- non si smarrisce mai e giunge a compimento con una padronanza di mezzi tale da far apparire “semplice” il lavoro a monte.

Inizialmente, apprezzando i colori e le luci del Ponente ligure, dove Aciman ha ambientato il suo romanzo, mi ero crucciata del fatto che Guadagnino avesse scelto la zona dei laghi della Lombardia per questo film. A visione conclusa, credo di aver intuito i motivi della sua scelta (che non si collega solo al fatto che, in quelle zone, vive il regista).
Fra le location scelte per girare il film, infatti, il Lago di Garda e Sirmione in particolare sono profondamente legate al concetto di estatica sensualità che pervade tutto il film. Quei luoghi hanno dato i natali al poeta latino Catullo, uno dei più noti cantori classici dell’amore. Non troppo lontano, a Mantova, nacque Virgilio, maestro delle georgiche, degli idillii pastorali.
Una dolce mollezza (o, per restare in ambito letterario, la pigrizia, l’otium di Orazio, che invitava a rifuggere l’affanno derivante dalle ambizioni lavorative e politiche) sembra fondare ogni atto dei vari personaggi, pronti a godere della vita in senso epicureo, satolli della bellezza dei luoghi, della musica, della lettura, della cultura, delle persone, delle passioni.

Elio e Oliver, invece, non sembrano ancora sazi e scoprono di provare l’uno per l’altro curiosità, attrazione e repulsione (questa, legata per l’uno alla novità del sentimento e delle pulsioni fisiche e, per l’altro, a remore personali, dovute a una maggiore esperienza). La loro fugace relazione ha, per l’appunto, un che di ellenistico: è pura e lancinante bellezza stereotipata e sensualissima, come quella dei bronzi romani studiati da Oliver e dal padre di Elio, come quella -perfetta- delle pesche, delle albicocche e dei melograni che crescono nel giardino della madre di Elio. Non a caso, la tradizione greca, per esempio, riporta che il melograno nacque dal sangue di Dioniso, dio legato alla linfa vegetale, quindi alla vita, e alla liberazione dalle inibizioni, mentre la tradizione biblica dice che è uno dei sette frutti della Terra Promessa: il giardino della villa è un luogo paradisiaco, un hortus conclusus in cui si mischiano culture e sentimenti (indirettamente, vi fa accenno anche Elio, a proposito del mix di ricorrenze a cui è legata la sua famiglia). La frutta è legata all’idea di prosperità e di longevità: tutti mangiano i frutti di questo giardino incantato, immersi in una serenità ultraterrena.
In un paio delle scene più significative del film, tornano entrambi questi elementi inanimati dal grande valore simbolico: il braccio reciso di un bronzo romano, usato per suggellare l’inizio concreto dell’intesa fra Elio e Oliver, e una pesca, protagonista suo malgrado di un momento particolarmente tormentato di Elio in cui, a volerla trovare, riecheggia la metà meno nota del distico elegiaco più famoso di Catullo: Amo e non amo, sono pazzo e non sono pazzo.

Chiamami col tuo nome è un film volutamente colto (nella messinscena, nelle citazioni), ha un sapore “borghese” nella caratterizzazione dei luoghi, dei personaggi e delle loro abitudini, ma si dimostra estremamente universale, semplice e disarmante nel mostrare la naturalezza dei sentimenti positivi (quelli fra amanti, amici, genitori e figli e quelli nei confronti del bello e della varietà della cultura e della conoscenza, intesa anche come preparazione accademica, specialistica).
Il discorso finale del padre di Elio al figlio denota un’astrazione parimenti inumana e terrena: sogni, speranze, ricordi, proiezioni personali si esplicano nella gioia pura di aver appreso che la propria creatura ha provato per la prima volta sensazioni sublimi come l’Amore e la Pena d’Amore. L’arcana empatia mentale ed emotiva di quest’uomo lo rende una creatura fantastica, un genio (inteso come nume tutelare) del luogo (la villa e il suo giardino, ma anche il cuore del figlio).
A richiamare la valenza magico-esoterica dei comportamenti dei genitori di Elio, c’è la sequenza finale, sui titoli di coda. Il ragazzo è ancora preda della triste malìa di Oliver, appena palesatosi al telefono. I due si sono chiamati rispettivamente l’uno con il nome dell’altro. Elio, quindi, è ancora Oliver. La madre lo chiama gentilmente e ripetutamente, finché, come Orfeo, Elio si volta, riconoscendo il proprio nome. E spezza l’incanto dolce e malevolo, per tornare sulla Terra, pronto a nuove esperienze ed Amori.

Bravi e decisamente adatti ai vari ruoli tutti gli attori protagonisti.
Per quanto riguarda i protagonisti, fisicamente, Chalamet è un adolescente perfetto, un modello caravaggesco, ma il suo personaggio non è solo bello d’aspetto, efebico (caratteristica che, comunque, si presta bene a un ruolo che presuppone un rapporto con un mentore): è intelligente, sensibile, pronto alla scoperta e il giovane attore rende molto bene le sfaccettature della personalità di Elio. Ermie Hammer è un efficace simulacro di amore e bellezza: aitante, premuroso e sincero, incarna un archetipo senza tempo.

Anche il reparto tecnico si distingue. In particolare, ho apprezzato il lavoro degli scenografi, molto attenti ai dettagli d’epoca e al tono di svagata eleganza conferito all’ambiente della villa in cui si svolge gran parte del film, e i brani originali composti da Sufjan Stevens.

Ritengo probabile che, visti i suoi antagonisti, non vincerà alcuno dei 4 Oscar 2018 a cui è candidato, ma Chiamami col tuo nome è un film “importante”, capace di tracciare un sentiero in seno alla cinematografia italiana.

8 commenti

  1. inchiostro nero / 29 Gennaio 2018

    Proiettandomi nella tua perfetta analisi ( mi è sembrato di rivedere il film ), ho scorto anche Renoir regista, soprattutto su quel modo di vedere la società in classi, che però Guadagnino riesce a far collimare con semplicità e arguzia.

    • Stefania / 30 Gennaio 2018

      @inchiostro-nero: purtroppo, non conosco ancora il cinema di Renoir per potermi esprimere, è una delle gigantesche lacune che devo colmare 🙂

      • inchiostro nero / 30 Gennaio 2018

        Renoir lo conosco per le trasposizioni dei romanzi di Émile Zola ( autore che adoro ). Come lo scrittore francese, le sue opere si prefigurano come raffigurazioni psicologiche e interiori, che delineano poi una stratificazione sociale compenetrata da un senso di incomunicabilità. In ”Chiamami col tuo nome”, però, questa incomprensione viene a mancare, anche se sorretta da un’ostentazione della cultura al limite dello snobismo. Diciamo che omaggia il figlio del celebre impressionista, ma batte strade diverse.

        • Stefania / 31 Gennaio 2018

          @inchiostro-nero: capisco.
          A proposito di incomunicabilità, purparlé, il fatto che la “servitù” parli esclusivamente in dialetto e sembri profondamente legata a un passato agreste lontano non è una cosa curiosa, che alimenta un po’ lo snobismo di cui parli? Cioè, l’avevo notato anche in A Bigger Splash, in cui la cameriera di turno, oltre a parlare solo siciliano/italiano fortemente influenzato dal dialetto, vestiva “(nor)male” rispetto agli stilosissimi padroni di casa, la Swinton in particolare.

          • inchiostro nero / 31 Gennaio 2018

            @stefania: si, era ciò che intendevo. In primis, la differenza di linguaggio, che poi si traduce in differenza culturale. Da qui le suddivisioni in classi, e l’inevitabile distaccata sufficienza ( non particolarmente marcata in questo caso ).

  2. Nadja / 3 Marzo 2018

    io ho visto molti rimandi al disprezzo di Godard

  3. Stefania / 3 Marzo 2018

    @elisa1996: ahimé, purtroppo non ho ancora visto il film di Godard 🙂

  4. Nadja / 4 Marzo 2018

    anche quel le lingue usate sono l’italiano, l’inglese e il francese, i colori e gli ambienti parlanti italiani, sia gli interni che gli esterni.

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