AMERICAN GIGOLO’ / 26 Febbraio 2012 in American Gigolo

ATTENZIONE su indicazione dell'autore, la recensione potrebbe contenere anticipazioni della trama

La pioggia disturba la mia vista riempiendo il parabrezza di piccole sacche di distorsione visiva, che io spazzo via con un colpo di tergicristallo. Scalo in seconda ed esco dalla curva in accelerazione e anche per oggi fanculo al proposito di guidare piano. Ultimamente la guida sta diventando un problema serio. Il pensare troppo no, quello è sempre stato un problema serio. Come rimanere colpiti, mentre sbircio con occhio distratto il cinegiornale del Regime, dal fatto che i professori dell’Università di Fisica della Sapienza non abbiano ancora scoperto lo shampoo. Potevano chiedere a quelli della ricerca scientifica. Bah!

Paul Schraeder. 1980. Se Dio avesse una videoteca ce l’avrebbe.

“Tutto quello che mi serve sono IO!”. Lo ammetto a vent’anni avevo una voglia di prendere a morsi la scala sociale e chiunque mi si parasse davanti. E allora ero stronzo per davvero, non come adesso, rammollito dal tempo e dall’indolenza .

Camicie sempre botton-down. Tinta unita, raramente a piccole righe (ma piccole).

L’ascesa e la caduta di un gigolo’ nell’America rampante del 1980, perfetta apertura del decennio a noi tanto caro, quello dell’edonismo reganiano, non poteva non piacermi.
Trama a parte di questa godibile miscela di giallo e denuncia, che affonda il bisturi nella fetida Los Angeles dei quartieri alti, American gigolo’ e’ un film cult che non può essere racchiuso e confuso nella radicalizzazione della semplificazione , veramente troppo semplicistica (scusa la ripetizione), dell’estetica nuda, cruda e fantocciana dello stile di vita che predomina in questo tempo dannato: il culto della bellezza fisica e della cura di se’, necessarie a diventare famosi, anche senza sapere e/o avere niente da dire. Meno che meno materia presente nella scatola cranica.

No! Nel personaggio di Julian Kaye, aitante gigolò attivo nell’alta borghesia di Los Angeles, faccia da schiaffi, uomo in vendita dai panni lussuosi, c’è molto di più. C’è il lato TURGIDO del riscatto sociale attraverso gli strumenti che si hanno a disposizione, migliorandoli, affinandoli , senza essere scalfito da idealismi piagnucolosi. Almeno fino all’inconveniente. Quando il destino smazza la carta sbagliata. E quando abbassi la guardia. E l’amore fa breccia. Che avviene quando Kaye conosce Michelle ( l’ex modella, ormai sessantenne, Lauren Hutton), affascinante moglie di un importante politico . E siccome i guai non bussano mai da soli alla porta, Julian è accomunato ad un omicidio di una signora bene, del quale risulta il primo indiziato, complice anche una falsa testimonianza. L’uomo un tempo ricercato, adulato, il prestante adone ricoperto di denaro e attenzioni da un gran numero di donne attempate, clienti insoddisfatte dei propri mariti e della routine esistenziale, diventa all’improvviso un personaggio scomodo, da evitare.
Julian si ritrova così solo, senza la possibilità di sostenere un alibi: chi ammetterebbe di essere stato con lui al momento del delitto? La salvezza si presenterà sotto le spoglie gradevoli proprio della suddetta Michelle, donna innamorata e coraggiosa, pronta a sacrificare la propria reputazione e quella del marito, aspirante governatore, per un uomo che ha imparato ad amare.

Ok,ok il finale è leggermente smielato, soprattutto per me. Ma fatemi il favore di non confondere le cose con lo spettacolo osceno dei grandi fratelli o tronisti odierni, trattasi di un concetto molto più serio.

Le scene che sono entrate nell’ immaginario collettivo sono quelle di Gere che studia lo svedese mentre fa ginnastica appeso al soffitto con delle cavigliere e quella (veramente mitica) in cui sceglie il look per la serata cercando di abbinare camicia e cravatta a completi buttati sul letto di tutte le sfumature: tutti abiti di sartoria italiana. Quell’ italian style che vedra’ sorgere la sua stella con Armani e Versace proprio in quegli anni. Cura dei particolari, classe, charme, formalismo estetico, stile. Una splendida polaroid. Dai colori freddi. E precisi.
Anche gli ambienti in cui si muove Julian Kay lanceranno una moda: i grandi alberghi, le ville signorili dove svolge il suo lavoro e il suo appartamento: un loft minimalista, con attrezzature hi-tech e attrezzi ginnici. Probabilmente molti presunti architetti italiani hanno preso spunto da queste scene. Non mi direte che al vostro occhio aggrada di più il grigiolino tristanzuolo delle case del popolo? Oddio, veramente mi aspetto di tutto visto che qualcuno ha addirittura affermato che l’Unione Sovietica era il paradiso dei lavoratori.

Cravatte regimental o tinta unita. Mai fantasie floreali. Dico mai. Ho detto mai!

L’estetica ed etica si fondono e al personaggio io non ho mai assegnato nessuna valenza negativa: e’ un ragazzo che si arrangia, che fa quello che gli piace sfruttando le sue frecce migliori per fare carriera. Contrassegnato però da un continuo tentativo di migliorarsi e da uno charme che non può essere confuso (ai miei occhi) con una semplice e rozza vendita del proprio corpo. Lui sceglie. Ben vestito, battuta pronta. Cinico in un mondo cinico. Non adatto a chi rimane attaccato ai sogni di bambino. Nelle nuvole di certi sogni vediamo solo quello che ci fa piacere. E i sogni finiscono all’alba. Meglio prepararsi per tempo.
La colonna sonora è di Giorgio Moroder, la tra cui la famosa “Call me” di Blondie che molte di voi avranno ascoltato puntando l’occhietto voglioso (con annessa bavetta alla bocca) sulle chiappe nude di Richard. Mi corre l’obbligo precisare che non sono geloso.

Sayonara,adieu, bye bye e quant’altro.

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