100 ANNI DI “ANIME” IN UN SAGGIO FONDAMENTALE
Se, nel corso degli ultimi decenni, la cultura del misterioso Giappone è diventata sempre più familiare agli “occidentali”, il merito va anche alla diffusione di molte delle opere di animazione realizzate dalla prolifica industria locale che, nell’arco dell’ultimo secolo, ha saputo imporsi sul mercato internazionale, proponendo al pubblico contenuti e tecniche di narrazione e di rappresentazione assolutamente originali che sono diventate modello di riferimento estetico e formale anche per i medium extra-nipponici.
Oltre che illustrare con dovizia di particolari gli episodi più importanti relativi all’epopea degli anime giapponesi, contestualizzandoli all’interno delle varie e complesse cornici socioeconomiche locali succedutesi nel tempo, la nuova edizione aggiornata dell’ampio e documentato saggio Storia dell’animazione giapponese. Autori, arte, industria e successo dal 1917 a oggi di Guido Tavassi (ed. Tunué, 2017) descrive ampiamente questo fenomeno fin dalle sue origini.
Rispetto all’edizione pubblicata con successo nel 2012 e divenuta ormai introvabile, quella appena data alle stampe contiene alcuni aggiornamenti relativi alle tendenze del mercato affermatesi negli ultimi 5 anni, pur senza elencare nel dettaglio le 245 serie tv e i 70 film prodotti dall’industria dell’animazione giapponese durante tale intervallo temporale.
Questa nuova edizione del saggio, inoltre, si avvale anche di un contributo del sociologo Marco Pellitteri, autore de Il drago e la saetta e di Mazinga Nostalgia, una coppia di testi fondamentali per quanto concerne l’analisi delle dinamiche relative alle rielaborazioni transculturali del Giappone.
La necessità di pubblicare una nuova edizione aggiornata del testo di Tavassi conferma quanto e come, in Italia, l’attenzione sull’argomento sia desta, sia da parte dei professionisti (animatori, studiosi, critici, ecc.) che dei semplici amatori: la passione per l’argomento da parte dello stesso autore (classe 1969) nasce grazie alle particolari congiunture massmediologiche sviluppatesi nel nostro Paese tra gli anni Settanta e Ottanta, un periodo preciso della storia dell’animazione nipponica, caratterizzato dal fatto che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, il Giappone aveva iniziato a riversare numerose produzioni seriali televisive e diversi lungometraggi animati anche all’estero, in particolare negli Stati Uniti, in Francia, Spagna, Germania e, appunto, Italia, dove abbondavano reti televisive, soprattutto locali, disposte a trasmettere anime incentrati su avventure di super-robot (robotto o mecha), giovani atleti (spokon) e maghette (maho shojo), oppure ispirati alla letteratura ottocentesca europea per ragazzi (come il progetto editoriale Sekai meisaku gekijo della Nippon Animation, che comprende classici dell’animazione giapponese del calibro di ANNA DAI CAPELLI ROSSI e HEIDI). Non è un caso che la copertina del volume, poi, sia stata realizzata da LRNZ (a sua volta, classe 1978), animatore e fumettista italiano fortemente influenzato dal repertorio visuale giapponese proveniente da manga e anime.
Grazie all’adozione di un’esposizione basata su un rigoroso ordine cronologico, la Storia dell’animazione giapponese di Tavassi si presenta come un agilissimo excursus storico organico e monografico su un argomento tanto ampio e stratificato come quello del variegato mondo degli anime, di cui il testo affronta non solo gli ambiti più mainstream e commerciali, ma anche la ricca produzione sperimentale e indipendente a cui, in Giappone, sono dedicati diversi festival, fornendo esaurienti specifiche sul funzionamento degli studi di animazione e sulla terminologia di settore.
- Mecha: “Mazinga Z“ (Majingā Z, 1972)
- Spokon: “Mimì e la nazionale di pallavolo“ (Shin Attack no. 1, 1976)
- Maho shojo: “L’incantevole Creamy“ (Mahō no tenshi Kurīmi Mami, 1983)
LE ORIGINI E GLI SVILUPPI DELL’ANIMAZIONE GIAPPONESE
L’anno di ripubblicazione della Storia… di Tavassi non è casuale: nel 2017, infatti, cade il centesimo anniversario della nascita dell’animazione giapponese.
Benché, secondo alcuni autori, sia possibile far risalire la cultura nipponica dei disegni animati (animeshon) addirittura al X secolo, quando erano ampiamente diffuse le “immagini arrotolate” (emakimono) di origine cinese, è filologicamente più corretto indicare il 1917 come l’anno ufficiale dell’inizio dell’avventura animata in Giappone. Mentre a Tokyo iniziavano a essere proiettati i primi cortometraggi animati occidentali, accolti da un grande successo di pubblico, un terzetto di animatori autodidatti (un pittore e due mangaka), finanziato da altrettante case cinematografiche incuriosite dal nuovo medium, mise in pratica alcune tecniche di animazione rudimentali, creando una serie di senga eiga (letteralmente, “film di linee”). Il primo di questi cortometraggi, Imokawa Muku-san genkanban no maki, realizzato dal vignettista Oten Shimokawa, venne presentato al pubblico nel gennaio di quell’anno, inaugurando, di fatto, l’epopea dell’animazione giapponese: dopo aver acquistato notorietà soprattutto in qualità di strumenti con finalità documentaristiche, pedagogiche e pubblicitarie, i prodotti animati giapponesi si sono diffusi velocemente all’interno del panorama culturale e mediatico del Paese e del limitrofo bacino orientale (Cina, Corea, Vietnam), fino a conquistare l’Occidente.
Il resto, per l’appunto, è storia: Tezuka Osamu, Miyazaki Hayao e Takahata Isao dello Studio Ghibli, Ōtomo Katsuhiro, lo Studio Pierrot, Matsumoto Leiji, Oshii Mamoru, Kon Satoshi e, recentemente, Shinkai Makoto sono solo alcuni tra i grandi nomi dell’animazione cinematografica e televisiva giapponese che hanno saputo modellare l’immaginario collettivo con storie, temi e toni che si sono insinuati nella cultura extra-asiatica, fino a fondersi con essa, in uno scambio osmotico di forme e contenuti estremamente prolifico.
[Nella foto principale: un’immagine tratta da PAPRIKA di Kon Satoshi]
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